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Dicembre 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La mitica coppia dell’arte del ‘900 Buffet e il mercante Garnier va all’asta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“La mitica coppia del mondo dell’arte del Novecento, il pittore francese Bernard Buffet (1928-1999) e il suo mercante, Maurice Garnier, scomparso nel 2014, di nuovo insieme, riuniti dall’asta di Artcurial in programma l’8 e il 9 dicembre.

Quattro opere di Bernard Buffet appartenenti al patrimonio privato dell’uomo che lo scoprì, Maurice Garnier, e che poi fu anche il suo mercante, andranno all’incanto l’8 e il 9 dicembre presso la casa d’aste francese Artcurial.

Un evento che, secondo le stime, frutterà fra 2 milioni e 2,5 milioni di euro. In pratica, è una parte dell’eredità del mercante Maurice Garnier, deceduto sei anni fa, che viene venduta ora, dopo che anche sua moglie Ida è scomparsa nel giugno di quest’anno. La loro collezione è rimasta nell’appartamento della coppia, sul quai d’Orsay, e racconta il percorso, lungo 60 anni di attività, del più grande sponsor di Buffet. Il patrimonio della successione della coppia Garnier, o meglio una parte, sarà messo in vendita in due tempi: il calendario di Artcurial prevede, l’8 dicembre, le grandi opere, e il 9 dicembre, le altre.

L’opera di Bernard Buffet è un tesoro ben custodito. Per Maurice Garnier il sodalizio con l’artista è stato la propria vita. Il primo incontro nel 1948, ma poi, dal 1977, per 37 anni, si dedicò esclusivamente all’opera di Buffet dopo aver iniziato a lavorare nel mercato dell’arte giovanissimo, a 25 anni, nel 1946, dopo la guerra. Cinque anni prima di morire, nel 1999, Garnier, aveva creato un fondo, dotato di 350 pitture, con l’intenzione di realizzare un museo Bernard Buffet in Francia, a Parigi, ma non ha fatto in tempo. Il progetto non sarà abbandonato, ha fatto sapere la nipote di Garnier che prosegue il lavoro su Buffet. Servirà uno spazio di almeno mille mq per esporvi le opere di grande formato (fino a sette metri di lunghezza).

Maurice Garnier è stato il complice più fedele di Bernard Buffet, artista a lungo malvisto da istituzioni e appassionati d’arte anche perchè troppo prolifico (8 mila opere, un quadro ogni due giorni), per molti anni amante di Pierre Bergé prima di incontrare Annabel, la donna che sposò, ma che fu riabilitato pubblicamente con una retrospettiva al museo d’arte moderna di Parigi (Mam) nel 2017.

I suoi estimatori non potranno soddisfare però, la propria fame perchè all’asta di Artcurial ci sono solo quattro i lotti a rappresentare l’artista. Tra questi, i celebri, Deux clowns trompette (1989), del valore stimato fra 400 mila e 600 mila euro e il Clown guitariste (1999) del valore compreso fra 250 mila e 300 mila euro. Una vendita senza rischi, dal momento che i tre eredi, i figli del primo matrimonio di Ida Garnier, si sono tenuti il meglio, come il quadro, Clowns musiciens, le saxophoniste (1991), venduto per 1,3 milioni di euro (tasse incluse) da Christie’s a Londra, nel 2016. Un altro clown, del 1968, è stato aggiudicato da Sotheby’s, a Hong Kong, per 830 mila euro.” Italia Oggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Europa non ricicla abbastanza plastica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“A causa di norme più stringenti il tasso di riciclaggio degli imballaggi in plastica dovrebbero precipitare. Se non rafforzera’ le sue capacita’ industriali l’Ue non raggiungera’ l’obiettivo del 50 per cento di plastica riciclata e potrebbe vedere svilupparsi le esportazioni illegali. L’Unione europea si trova di fronte al problema della gestione dei rifiuti di plastica, dice un rapporto della Corte dei conti europea, cominciando dal componente principale, i rifiuti da imballaggio.

La produzione continua a crescere: l’anno scorso ha raggiunto circa 18 milioni di tonnellate, di questi, poco più del 60 per cento erano imballaggi. E dato che il ciclo vitale della plastica si estende su più secoli, il 40% della produzione di plastica dell’Ue e’ destinata a produrre imballaggi che saranno gettati tra i rifiuti. Ora, a partire dal 1° gennaio 2021, la gestione di questi rifiuti si complichera’ molto per gli operatori europei, dato che entrera’ in vigore un emendamento alla convenzione di Bali sulle esportazioni dei rifiuti pericolosi, adottata in maggio 2019. Fino ad ora, la maggior parte dei materiali plastici era riportata nella lista dei rifiuti non pericolosi, la cosiddetta “lista verde”. Ormai, solo i materiali riciclabili non contaminati, pre-trattati, privi di qualsiasi materiale non riciclabile e che sono stati oggetto di una preparazione in vista di un riciclaggio immediato e che rispetta l’ambiente possono figurare sulla lista verde. Cio’ renderebbe ancora più difficili le esportazioni verso l’Asia della plastica destinata a essere riciclata, quota gia’ dimezzatasi dal 2016, quando la Cina ha cominciato a chiudere il suo mercato, processo ormai completato. Questa grande potenza non vuole più essere la “discarica del mondo” e ha reso più severe le sue norme sulla qualita’ dei materiali che importa per il riciclo. Una maniera, inoltre, per regolare i flussi e lasciare spazio al trattamento dei propri rifiuti in plastica. Risultato: le esportazioni europee si sono orientate verso i paesi che si delineavano come migliori offerenti (principalmente Malesia e Turchia). Ma con l’entrata in vigore dell’emendamento alla convenzione di Bali nel gennaio prossimo, queste opportunita’ potrebbero a loro volta ridursi. La perdita del mercato cinese nel 2017-2018, poi le probabili restrizioni a partire dal 2021 con il giro di vite promosso dalla Convenzione di Bali, complica ancora di più il raggiungimento dei nuovi obiettivi che l’Ue si e’ prefissata. Infatti, l’Unione ha rivisto nel 2018 la sua direttiva relativa agli imballaggi e i rifiuti da imballaggi, e ora l’obiettivo e’ raggiungere un tasso di riciclo degli imballaggi in plastica del 50 per cento nel 2025 e del 55 per cento entro il 2030. L’obiettivo fissato in precedenza (22,5 per cento entro il 2008) e’ stato raggiunto e ampiamente superato. Oggi, l’Europa nel suo insieme vanta un tasso di riciclo dei suoi rifiuti da imballaggi in plastica del 41 per cento. Ma se ha raggiunto questo livello, che resta comunque modesto se paragonato ad altri materiali (il vetro si ricicla al 73 per cento, gli imballaggi metallici al 76 per cento, la carta e il cartone all’83 per cento), e’ in buona parte grazie alle sue esportazioni. La Corte dei conti europea dichiara quindi: “L’esportazione al di fuori dell’Ue di rifiuti da imballaggi in plastica ha contribuito per un terzo al tasso di riciclaggio dichiarato per l’insieme dell’Unione europea nel 2017.” E in effetti, se le esportazioni totali di rifiuti in plastica diminuiscono, la quota di rifiuti da imballaggi aumenta in queste esportazioni: la meta’ tra 2012-2013, mentre ha raggiunto i tre quarti nel 2017. Dato che oggi sono più che mai limitate, le esportazioni così contribuiscono fortemente alla realizzazione di obiettivi che d’altronde sono stati rivisti al rialzo. A questo problema se ne aggiunge un altro: la mancanza di controllo su queste esportazioni, sia in partenza, sia al momento dell’arrivo nel paese di destinazione. Secondo le norme europee, i rifiuti esportati per il riciclo devono essere trattati nel paese di destinazione secondo gli stessi standard ambientali vigenti in Europa. In pratica, questa regola e’ ben lungi dall’essere strettamente osservata. I rifiuti possono quindi facilmente ritrovarsi nella natura o finire negli oceani, dopo che organizzazioni mafiose hanno cominciato a occuparsene, fatturando un trattamento fittizio. Le amministrazioni degli stati europei, per definizione, non hanno alcun potere di controllo nei paesi terzi, e gli imprenditori europei, vincolati a titolo di “responsabilita’ estesa del produttore”, svolgono raramente a verifiche su cio’ che avviene ai rifiuti nel paese d’arrivo. “Pertanto, la garanzia riguardo al riciclo dei rifiuti al di fuori dell’Unione europea e’ debole e il rischio di attivita’ illegali e’ elevato”, scrive la Corte dei conti, secondo la quale “l’eliminazione illegale dei rifiuti costituisce uno dei mercati illegali più redditizi al mondo, al pari della tratta degli esseri umani, il traffico di droga e il commercio illecito di armi da fuoco, in ragione del debole rischio di azioni penali e dell’ammontare poco elevato delle sanzioni”. Citato nuovamente dalla Corte dei conti, il progetto di ricerca europeo BlockWaste ha stimato nel 2017 che il 13 per cento del mercato dei rifiuti non pericolosi spariva all’interno delle filiere illegali, una quota che raggiunge il 33 per cento per i rifiuti pericolosi. Il tema delle esportazioni non e’ la sola preoccupazione riguardo alla conformita’ con i nuovi obiettivi europei sul riciclo, d’altronde giuridicamente vincolanti. La revisione del 2018 della direttiva sugli imballaggi ha d’altra parte imposto agli stati membri regole di contabilizzazione più rigide e armonizzate a partire dal 2020. ” Italia Oggi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Novembre 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il nodo del Dna sui reperti e i pantaloni manipolati di Pelosi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, un estratto di L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini. Stragi, Vaticano, DC: quel che il poeta sapeva e perché fu ucciso di Simona Zecchi (Ponte alle Grazie)

“Da quando quarantacinque anni fa il corpo massacrato di Pier Paolo Pasolini è stato rinvenuto presso l’area di un campetto da calcio dell’Idroscalo di Ostia, alle porte di Roma, alle ore 6.30 del mattino, le ultime indagini sono quelle che hanno avuto maggiore durata, cinque lunghi anni.

Un riesame delle vecchie carte del processo è stata prima necessaria agli inquirenti, in modo tale da riprendere là dove le attività investigative passate erano state interrotte, affossate o non chiarite. Sono stati individuati testimoni che prima per qualche «strana» ragione non era stato possibile individuare.

Molti degli ex abitanti o possessori delle ex baracche dell’Idroscalo sono stati ascoltati (in alcuni casi riascoltati) e alcuni di loro hanno riferito per la prima volta del grande caos di quella notte in cui il «campetto degli Zingari», come veniva chiamata quella parte di Idroscalo, era popolato da più macchine, moto e persone.

Racconti, anche a distanza di anni, coincidenti tra loro. Infine, nuove indagini sono state effettuate insieme ad alcuni accertamenti tecnici e biologici. Tra le scoperte più rilevanti che sono state fatte poi, quella dell’esistenza di due automobili in possesso di Giuseppe Pelosi (oltre che di una moto) attive durante la notte del 1° novembre 1975 e circolanti fra la Stazione Termini e l’Idroscalo: due Fiat 850, una di colore bianco e l’altra di colore blu acceso. Fatto questo che indica, come hanno scritto in via ipotetica i nuovi inquirenti, il possibile supporto di altre persone.

Nei vecchi atti l’unica auto in possesso di Pelosi invece è sempre e solo stata quella bianca, di cui esistono anche le foto presenti nei faldoni del processo e considerata estranea al delitto, mentre sia lo stesso Pelosi sia i suoi amici interrogati di nuovo a distanza di molti anni, e sempre reticenti, ne hanno continuato a omettere l’esistenza.

La Fiat 850 azzurra è stata inghiottita dal buio di quella notte, così come l’altra Alfa GT 2000, o meglio le altre Alfa – come vedremo – e le moto coinvolte. Inoltre, la pista del furto delle bobine di Salò (vicenda che presto affronteremo con elementi nuovi) è stata ritenuta dagli inquirenti valida; e ancora, la dinamica di più persone sulla scena quella notte, che forse il magistrato non ha ritenuto potesse reggere in un processo, sebbene combaciasse con diversi altri elementi a supporto, e in Massacro fissata con precisi e ulteriori elementi.32 E poi, la lista dei sospettati a fronte dei quali è stato svolto l’esame del DNA con i profili genetici presenti nel database del ministero dell’Interno, ben 120. Sui reperti, cinque le tracce di profili ignoti emersi nel 2013, oltre a quelli appartenenti allo scrittore e a Pelosi, ma le condizioni di alcuni reperti e degli stessi dati presenti nel database non hanno consentito la precisa individuazione di alcuna delle persone sospettate.

Due cose tuttavia il nuovo esame le ha accertate. Intanto, la conferma che non esiste alcuna traccia organica prodotta da un atto sessuale sui vestiti di Pasolini (né l’allora perizia sul corpo rilevò al tempo alcuna presenza al riguardo). Esiste invece traccia organica di quel tipo sugli slip di Pelosi in cui non compare il profilo di Pasolini, dunque prodotta in altro frangente. Se si pensa che tutto il processo al tempo fu costruito sull’assunto che Pasolini e Pelosi si fossero appartati all’Idroscalo per consumare un rapporto sessuale, come provato abbondantemente in Massacro, 33 al contrario, quello stesso assunto, mirato a sporcare l’immagine di un uomo e un letterato che non aveva bisogno di spostarsi, per i suoi affari privati, di 35 km in un luogo buio e poco sicuro, resta privo di logica e di riscontri fattuali.

L’altra questione che qui viene mostrata e sciolta, e che le carte invece non hanno spiegato, riguarda poi la macchia sui pantaloni di Pelosi, la cui sola foto avevo mostrato nel precedente libro e che ripropongo qui nuovamente ponendola a confronto, stavolta, con l’immagine dello stesso reperto presente presso il museo criminologico di via Giulia a Roma, che al momento della pubblicazione non possedevo.

Le due foto raffigurano gli stessi reperti dopo oltre quarant’anni: una quello intriso di sangue proveniente dal vecchio fascicolo n. 1466/75, l’altra quello proveniente dal museo criminologico privo di quel grande alone. Ho personalmente verificato con la parte del Dipartimento dell’Amministrazione Giudiziaria (DAP) responsabile dei reperti custoditi presso il museo che i pantaloni lì esposti sono originali, nessun tipo di modifica nel corso degli anni è avvenuta o alcun reperto-copia ha mai sostituito gli originali.

Altra cosa rilevante da spiegare è che non tutti i reperti sono stati inviati allora ai periti con la stessa tempistica e modalità, come si evince dalla lettura dei vecchi atti: un particolare questo che ha senso solo ora che si osservano insieme queste due foto e che fa sorgere una domanda precisa: i pantaloni arrivano senza macchia al museo perché manipolati tempo prima? La cosa fondamentale da dire poi è che nelle perizie svolte dai tre medici legali Rocchetti-Merli-Umani Ronchi,34 scelti dalla magistratura, tra il 1975 e il 1976, sugli stessi pantaloni blu di Pelosi non vi è alcun riferimento a quella grande macchia. Il riferimento a quell’indumento nelle vecchie carte è sempre e solo «a carico della parte inferiore della gamba destra del pantalone».

Le tracce sulla parte inferiore sono tuttora evidenti, ormai essiccate, mentre tutto il resto di quell’enorme macchia è sparito. Secondo quanto da me verificato, inoltre, i reperti, una volta giunti presso la struttura del museo (l’8 febbraio del 1985), sono stati oggetto di «disinfestazione e disinfezione», ma questo non ha affatto influito sulla persistenza delle macchie di sangue rimaste sugli altri indumenti (come accade, ad esempio, con la camicia «Missoni» di Pier Paolo Pasolini che qui, sempre per far comprendere l’evidenza di ciò che sto affermando nei due esemplari, mostro).

meno è stato possibile che si sia cancellato quell’enorme alone nel momento in cui, come raccontò Pelosi al tempo, il ragazzo si sarebbe accostato presso una fontanella prima di essere fermato dai carabinieri all’1.30 del mattino. Prova ne è che le poche altre macchie sugli indumenti di Pelosi sono rimaste lì, essiccate dal tempo ma presenti. E c’è dell’altro: gli esami compiuti dal RIS hanno indicato proprio la presenza, ormai non più evidente a occhio nudo, di tracce ematiche sulla parte superiore dei pantaloni.” Il Giornale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diabete e Covid fanno una sindemia Quando una malattia peggiora l’altra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Serve un’assistenza adeguata delle persone con diabete per evitare ripercussioni: soluzioni possibili con la telemedicina, ma anche con il potenziamento degli infermieri

“La pandemia di Covid-19 rischia di avere un impatto terribile su un’altra epidemia in corso da anni, quella di diabete: ormai ha problemi di glicemia alta una persona su dieci nel mondo, ogni otto secondi qualcuno muore per le complicanze della malattia. L’arrivo del coronavirus ha così provocato quella che gli esperti, in occasione della Giornata Mondiale del Diabete del 14 novembre, hanno ribattezzato come una «sindemia» in cui ciascuna delle due patologie peggiora l’altra.

La sindemia e la telemedicina

«Per molti pazienti al dramma del Covid-19 si aggiunge quello di una patologia cronica preesistente, il diabete, e le due condizioni purtroppo si peggiorano a vicenda», spiega Agostino Consoli, presidente eletto della Società italiano di diabetologia. “ Finora abbiamo concentrato tutta l’attenzione sull’interruzione della catena dei contagi, ma anche alla luce dei mesi che abbiamo di fronte sta diventando sempre più importante sforzarci per garantire a tutte le persone con diabete un’assistenza adeguata. Che era già in crisi prima del Covid-19: dobbiamo perciò ridisegnarla, facendo tesoro delle esperienze nella prima ondata della pandemia, quando abbiamo utilizzato e potenziato in corsa i servizi di telemedicina». L’uso più corretto della telemedicina è il tema di un nuovo documento redatto da SID assieme all’Associazione Medici Diabetologi e alla Società Italiana di Endocrinologia, in cui si è fatto il punto su tutti i sistemi disponibili e sulle criticità emerse a primavera per affrontare i prossimi mesi con maggior consapevolezza. «La telemedicina d’ora in poi dovrà diventare parte dello standard di cura del diabete, anche per venire incontro alle esigenze di specifiche categorie di pazienti come le donne in gravidanza o chi utilizza dispositivi avanzati come microinfusori per insulina, sensori della glicemia e sistemi integrati», dice Francesco Giorgino, presidente SIE.

L’obiettivo è dare una continuità all’assistenza proprio quando seguire i pazienti diventa più complicato e così non a caso la Giornata Mondiale è dedicata quest’anno agli infermieri: come spiega Paolo Di Bartolo, presidente AMD, «In un periodo così travagliato, il primo compito di un team diabetologico è stare vicino alle persone con diabete: assisterle quando è impossibile vedersi, seguirle quando è arduo effettuare una visita. Gli infermieri offrono un supporto essenziale e insostituibile, perché sono i più vicini ai pazienti e grazie a questo riescono spesso a decifrare e risolvere, in modo estremamente pratico, le difficoltà, i problemi e i dubbi che le persone con diabete incontrano ogni giorno». Il ruolo degli infermieri è fondamentale nella diagnosi precoce di diabete, per il training e il supporto psicologico, per trasferire conoscenze e abilità per monitorare il diabete, gestire le complicanze, riconoscere un’ipoglicemia, prevenire il piede diabetico e così via. «È una figura di riferimento insostituibile», aggiunge Stefano Nervo, presidente di Diabete Italia. “L’emergenza Coronavirus ha stravolto le modalità di gestione del diabete in termini di contatti con i pazienti, ora dobbiamo scongiurare che si ripeta quello che è accaduto a marzo integrando il più possibile le figure professionali nel team e usando teleconsulto e televisite per tenere sempre ben saldo il contatto con il paziente. Ricordiamo poi che c’è ancora oltre un milione di persone con diabete che non sanno di averlo: dobbiamo sempre fare prevenzione. Anche a pandemia in corso».

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Terna, 300 milioni per il supercavo in Sicilia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Un elettrodotto da 380 kilowatt di potenza lungo 172 chilometri per collegare Ragusa a Palermo passando per altre 4 province, Agrigento, Caltanissetta, Catania, Enna. Un collegamento ad altissima tensione che collegherà per la prima volta le due sponde della Sicilia, orientale con occidentale. Un progetto da 300 milioni di euro ideato da Terna – uno dei più importanti previsti in Italia dalla società – per migliorare la qualità del servizio elettrico della Sicilia e favorire così anche il passaggio alle energie rinnovabili.

Il ministero dello Sviluppo economico ha dato l’ok alla ripresa dell’iter di autorizzazione per il collegamento tra le stazioni elettriche di Chiaramonte Gulfi (Ragusa) e Ciminna (Palermo) e che attraverserà la Sicilia. «Sarà il primo collegamento ad altissima tensione nella parte occidentale dell’isola, attualmente caratterizzata da una rete a 150 kilowatt — spiega una nota della società guidata da Stefano Donnarumma —: un intervento fondamentale per superare la sezione critica fra l’area orientale e occidentale della Sicilia, creando migliori condizioni per il mercato elettrico». La grande infrastruttura prevede il coinvolgimento di 60 imprese con almeno 450 lavoratori. Una volta realizzata, Terna potrà quindi dismettere circa 20 chilometri di linee elettriche in aree densamente abitate e aree di pregio ambientale, così almeno 60 ettari di territorio verranno liberati dalle vecchie infrastrutture.

La grande opera servirà a rendere più sicura la rete elettrica siciliana ma sarà anche il passo fondamentale per una nuova transizione energetica dell’isola, favorendo la dismissione delle vecchie centrali a carbone favorendo una maggiore diffusione delle energie rinnovabili, con ripercussioni anche sulla mobilità. Dopo l’ok del Mise, ora la parola passa alla Corte dei Conti. Si conferma l’impegno di Terna in Sicilia dove la società tra il 2020 e il 2024 ha in programma investimenti per oltre 1,1 miliardo di euro per lo sviluppo e la sicurezza della rete elettrica rendendola la prima regione d’Italia per investimenti.

In Sicilia Terna gestisce 4.528 chilometri di linee elettriche in alta e altissima tensione e 75 stazioni elettriche, impiegando 188 lavoratori. Oltre al super elettrodotto Chiaramonte Gulfi-Ciminna, nei prossimi anni sono anche previste opere come il «Tyrrhenian Link», un’interconnessione che consentirà di collegare e accrescere la capacità di scambio elettrico tra il Continente (la Campania), la Sicilia e la Sardegna, e l’elettrodotto Paternò-Pantano-Priolo realizzato tra Catania e Siracusa. Intanto, il prossimo 19 novembre, il Consiglio di amministrazione di Terna si riunirà per approvare il piano industriale 2021-2025.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ottobre 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Emilia-Romagna dello spirito «aperta» per due giorni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra conventi, pievi, sentieri medievali e palazzi vescovili, oltre 30 luoghi di fede spalancano le porte ai visitatori. Con monaci e suore a far da guide

“Varcare la soglia di un convento di clausura. Addentrarsi in un palazzo vescovile. Incamminarsi all’alba sui grandi percorsi dei pellegrini medievali. Scoprire i tesori dei musei diocesani. E guardare con occhi nuovi quei capolavori d’arte, che fanno grandi i complessi abbaziali, le chiese, le pievi millenarie dell’Emilia-Romagna. È il pacchetto di esperienze offerto il 17 e 18 ottobre della seconda edizione di Monasteri Aperti, che coinvolge più di 30 luoghi di fede dalle Terre matildiche al Montefeltro, dalle rive del Po al Delta, dall’Appennino alle corti di pianura. Due giornate ricche di eventi (molti gratuiti) ad alta intensità estetica e spirituale.

Si sceglie tra visite guidate, concerti di organi antichi, aperture in notturna e, all’abbazia di Nonantola (luogo del cuore di Matilde di Canossa), anche laboratori di scrittura medievale per penetrare nel mondo silenzioso e paziente degli amanuensi. Nel cuore di Parma storici dell’arte introducono agli incanti solenni del monastero di San Giovanni Evangelista: la chiesa abbaziale dalla cupola affrescata da Correggio; la farmacia con arredi di Cinque e Seicento; la biblioteca monumentale decorata da simboli, allegorie, massime sapienziali come una grandiosa enciclopedia illustrata. E così a Modena nella millenaria abbazia di San Pietro, scrigno di splendide committenze rinascimentali, tra cui le opere di Antonio Begarelli, virtuoso della scultura in terracotta, e a Reggio Emilia nella basilica della Ghiara, dove la nuova illuminazione magnifica le dorature, le altissime volte dipinte, capolavori come la Crocifissione del Guercino.

Trekking urbani

A Fidenza, cuore della Via Francigena, gli sguardi sono, invece, tutti per i bassorilievi di Benedetto Antelami che, a fine 1100, intarsiò con storie di santi e pellegrini la facciata della cattedrale di San Donnino, dove, nella notte di sabato, risuonano melodie dell’anno Mille grazie all’Ensemble Oktoechos. A Rimini è l’abate a far da cicerone nell’abbazia di Santa Maria Annunziata Nuova di Scolca sul colle di Covignano, dove sfolgora l’Adorazione dei Magi di Giorgio Vasari, che scelse la pace di queste mura per l’editing delle celeberrime Vite. Trekking urbani si snodano tra i luoghi di culto di due borghi gioiello della Romagna, Brisighella e Pennabilli, «paradiso perduto e poi ritrovato» di Tonino Guerra, mentre serpeggia tra i boschi di Civitella di Romagna l’antico tracciato, riscoperto da poco, della Via di Crinale (parte della Via Romea), che raggiunge il Santuario della Beata Vergine della Suasia.

Racconti dalla clausura

Davvero irripetibili, però, gli incontri con i monaci e le suore di clausura. Che aprono le porte delle loro case di preghiera per raccontare a chi voglia ascoltarli la propria scelta di vita. Succede con le sorelle francescane del convento delle Sante Caterina e Barbara a Santarcangelo di Romagna, con le clarisse del monastero della Natività di Maria nel cuore di Rimini, con le cappuccine del mistico monastero Santa Chiara a Lagrimone, tuffato tra i castagni delle colline parmensi.Desinare al desco monastico è possibile in Santa Maria della Neve a Torrechiara, a due passi da quella «fortezza dal cuore affrescato», dove Benedetto Bembo dispiegò in dipinti di sublime raffinatezza tutto il rituale dell’amore cortese.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Trecento anni fa nasceva Piranesi, il genio veneziano dell’incisione che è sepolto a Roma

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Trecento anni fa nasceva, il 4 ottobre 1720, Giovanni Battista Piranesi, incisore geniale e architetto visionario al quale si deve il rinnovo anche della chiesa di Santa Maria  all’Aventino, all’interno del complesso extraterritoriale in cui ha sede il Sovrano Ordine di Malta. Si tratta di una delle più antiche chiese di Roma. In questa chiesa è sepolto l’artista veneto.

La chiesa venne restaurata nel Cinquecento anche se poi cambiò volto nel 1764 quando il cardinale Giovanni Battista Rezzonico, Gran Priore dell’Ordine, e nipote di Papa Clemente XIII, commissionò il rinnovamento della chiesa, dei giardini e della piazza antistante, a Giovanni Battista Piranesi. L’artista usò il linguaggio dell’arte sia barocca che neoclassica , collocando nelle nicchie le tombe marmoree dei cavalieri e decorando l’esterno e interno della chiesa con stucchi prevalentemente in gesso. Queste decorazioni sono considerate citazioni dell’iconografia etrusca, romana e del corredo iconografico della famiglia Rezzonico e dell’Ordine di Malta, devoto a San Giovanni Battista.

In questa chiesa, nella seconda nicchia di destra, è stato sepolto Piranesi. Una statua lo rappresenta con un’espressione assorta, appoggiato a un’erma sulla quale sono raffigurati strumenti da incisore. È vestito con un’imponente toga romana; in mano regge una testimonianza del suo ultimo viaggio di studio, compiuto a Paestum nel 1777. 

L’Ordine di Malta sta attualmente lavorando con la Fondazione Marco Besso, che possiede la più ampia raccolta di incisioni di Giovanni Battista Piranesi, ad una conferenza sull’artista nel 2021, covid permettendo.”

Il Messaggero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Enpam, in vendita un quinto del portafoglio immobiliare: asta da un miliardo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Sarà il più grande affare immobiliare visto in Italia nell’ultimo decennio. Enpam, la cassa previdenziale dei medici, ha deciso di mettere in vendita un quinto del suo portafoglio immobiliare, un patrimonio che parte da un valore stimato di almeno un miliardo. «La decisone è stata presa circa un anno e mezzo fa — racconta Alberto Oliveti, presidente di Enpam — l’asset immobiliare rappresenta circa il 26% dell’intero patrimonio di Enpam: circa 6,3 miliardi dei complessivi 23 miliardi del portafoglio. Di questo 26%, il 20% è gestito in maniera indiretta, attraverso società di gestione il rimanente 6% in maniera diretta. Proprio quest’ultima parte del patrimonio è quella che viene messa sul mercato.

Si tratta di un complesso immobiliare che comprende residenziale e turistico (il 70% del quale con sede a Milano). Qualche giorno fa si è chiuso il termine per l’iscrizione all’asta. La vendita ha suscitato grande interesse tra gli investitori internazionali: sono 43 le richieste di partecipazione arrivate non solo da sgr e investitori istituzionali italiani ma anche da colossi internazionali come Allianz, Deutsche Bank, Pimco, Blackstone, JpMorgan, Goldman Sachs, Starwood Capital, Hines, Cerberus solo per citare alcuni tra i più importanti player mondiali. «Abbiamo deciso di affidare a Deloitte il compito di proporre il patrimonio immobiliare al mercato — afferma Oliveti — il potenziale acquirente dovrà fare un’offerta per l’intero pacchetto non frazionabile. Si passerà attraverso diverse selezioni e al cda Enpam arriveranno le 4 o 5 migliori proposte. A quel punto sarà lo stesso cda Enpam a decidere se conviene vendere e a chi».

L’obiettivo della vendita

Già in passato Enpam aveva messo sul mercato circa 4500 immobili abitativi a Roma ma stavolta la scelta è più ampia e di maggior valore economico. «La logica che ci ha mosso — spiega il presidente Enpam — è quella di diversificare e assortire il portafoglio immobiliare mettendo sul mercato quegli immobili che avrebbero bisogno di investimenti, ristrutturazioni, riconversioni, tutte operazioni che un ente di previdenza non sa e non può fare. Basti solo pensare che in quel pacchetto ci sono circa 150 mila mq di strutture turistiche, retail commerciale e logistici, una caserma».

Con i ricavi, investimenti in residenzialità sanitaria

Ma cosa fare con il ricavato della vendita? Risanare le casse dell’ente di previdenza? «L’ente è sano e non ha bisogno di iniezioni di capitale — precisa Oliveti — questa operazione nasce per ottenere un capitale da reinvestire in immobili da affidare a Sgr: vogliamo essere più vicini ai nostri contribuenti. Per questo investiremo in residenzialità sanitaria e in immobili più coerenti con l’attività medica. Immobili che assicurino un rendimento migliore e che non richiedano competenze lontane dalla nostra professionalità». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Covid può portare al Parkinson, lo studio: «Sarà la terza ondata della pandemia»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Il COVID ha anche conseguenze neurologiche, inclusa una forte escalation dell’incidenza del morbo di Parkinson. L’avvertimento viene dall’autorevole istituto australiano di neuroscienza e salute mentale, il Florey, secondo cui l’infiammazione neurale subita da molti pazienti di COVID-19 è un fattore chiave di rischio di contrarre il Parkinson’s. In una relazione pubblicata sul Journal of Parkinson’s Disease, gli studiosi guidati da Leah Beauchamp, specializzata in perdita olfattiva da Parkinson’s, raccomandano ampio screening e trattamenti tempestivi.

Gli studiosi avvertono che la malattia degenerativa rischia con probabilità di rappresentare la «terza ondata della pandemia di Covid-19» e stimano che tre persone su quattro con il Covid-19 subiscono sintomi neurologici. Sostengono inoltre che i sintomi stessi, che vanno da encefalite a perdita dell’olfatto, sono probabilmente riportati per difetto. I ricercatori del Florey Institute raccomandano in particolare lo sviluppo di un protocollo di screening di massa mirante a identificare le persone a rischio di contrarre il Parkinson o che sono nelle prime fasi della malattia. Questo potrebbe includere test di olfatto e vista e scansioni cerebrali per identificare sintomi motori. Sono inoltre in via di sviluppo terapie farmacologiche che, se amministrate tempestivamente, potranno rallentare i fermare lo sviluppo della malattia.”

Il Messaggero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Settembre 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un «naso elettronico» per scovare in anticipo il tumore all’ovaio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Quello all’ovaio è ancora oggi un tumore pericoloso e purtroppo spesso letale perché ai suoi esordi non dà sintomi evidenti e in molti casi viene scoperto quando è ormai in stadio avanzato, con metastasi in altri organi. Un aiuto potrebbe però arrivare dal «naso elettronico», già  testato per la diagnosi del cancro alla prostata, e che ora ha dato esiti promettenti in uno studio appena pubblicato sulla rivista Cancers che è stato condotto dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano insieme all’Università Statale di Milano.

L’odore del tumore si percepisce dal respiro

Diverse sperimentazioni che le cellule sane cambiano odore quando si trasformano in malate. Un cambiamento impercettibile, ma talmente precoce da consentire di intervenire su un apparente organismo sano in modo da evitare lo sviluppo della malattia. Seguendo questo principio si è scoperto che l’olfatto dei cani è in grado di individuare dall’odore delle urine la presenza di un carcinoma prostatico in fase iniziale. «La presenza del tumore determina modificazioni di tutta una serie di processi metabolici, a cui segue il rilascio di sostanze volatili organiche – spiega Francesco Raspagliesi, direttore dell’Unità di Oncologia Ginecologica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e primo autore dello studio appena pubblicato –. Sono in pratica tracce della presenza della malattia contenute nel respiro sotto forma di molecole volatili. Il naso elettronico ha permesso di cogliere la presenza di alcune di queste sostanze nel respiro delle donne con cancro ovario che vengono così identificate rispetto ai controlli sani. Questi risultati sembrano indicare una linea di ricerca assai promettente per una futura possibile diagnosi precoce di questi tumori e ci spingono a proseguire con ulteriori studi».

La sperimentazione su 251 donne

Nella loro indagine, durata 13 mesi, i ricercatori milanesi guidati da Raspagliesi hanno coinvolto 251 donne suddivise in tre gruppi: 86 con carcinoma ovarico, 51 con una diagnosi di masse benigne, 114 sane come gruppo di controllo. Per il test del respiro, sono stati raccolti campioni di aria espirata tra le 7 e le 7,30 del mattino a digiuno. Alle pazienti e al gruppo di controllo è stato chiesto di eseguire, attraverso un boccaglio, un singolo respiro lento, al fine di inglobare nella sacca anche il respiro alveolare, cioè la parte che viene espulsa dall’interno dei polmoni e delle vie aeree inferiori, dove avviene lo scambio gassoso con il sangue. È questa porzione di respiro infatti che può contenere le sostanze volatili organiche che segnalano la presenza del tumore. «Il test è riuscito a distinguere le pazienti con tumore all’ovaio dalle donne sane – aggiunge Raspagliesi – e per questo crediamo che l’e-nose potrebbe essere una tecnica utile e non invasiva per la diagnosi del tumore dell’ovaio». Come spiega Susanna Buratti, professore presso il Dipartimento di Scienze per gli Alimenti, la Nutrizione e l’Ambiente dell’Università di Milano, «il naso elettronico è uno strumento che comprende una serie di sensori chimici aspecifici in grado di rispondere in modo reversibile alle sostanze volatili generando segnali che vengono immediatamente acquisiti ed elaborati da software specifici, in modo da avere “l’impronta olfattiva” tipica di ciò che si sta analizzando. Il naso elettronico simula il processo biologico di percezione dell’odore, rispetto al naso umano è altrettanto veloce (passano pochi secondi tra l’interazione con i sensori e la risposta), non è influenzato da variabili ambientali e dall’effetto di saturazione o adattamento e spesso è più sensibile».

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COVID-19 stop a sperimentazione vaccino AstraZeneca-Oxford: “Reazione anomala”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“L’azienda farmaceutica AstraZeneca ha sospeso momentaneamente tutti i test clinici sul vaccino contro il Covid-19, che sta sviluppando in collaborazione con l’Università di Oxford e l’Irbm di Pomezia, dopo che uno dei partecipanti alla sperimentazione ha accusato una seria  reazione avversa. Cioè una infiammazione spinale. Una tesi ancora da confermare, perchè l’infiammazione dei nervi spinali riscontrata nel volontario, potrebbe comunque non essere collegata al vaccino inoculato.

Secondo AstraZeneca di tratta di “un’azione di routine” che si verifica ogni volta che c’è una potenziale reazione inspiegata in uno dei test e che consente “di indagare e assicurare allo stesso tempo il mantenimento dell’integrità del processo dei test”. “Si è presentato un quadro clinico avverso in uno solo dei 50 mila soggetti volontari su cui il vaccino è stato testato – ha spiegato Piero di Lorenzo, ad dell’istituto di ricerca Irbm di Pomezia – la multinazionale ha deciso di sospendere temporaneamente la sperimentazione in nuovi soggetti mentre continua il monitoraggio degli altri volontari”.

Lo stop temporaneo consente al colosso farmaceutico di esaminare il caso e rivedere i dati sulla sicurezza. “Il nostro processo standard di revisione dei test ha fatto scattare una pausa – ha dichiarato un portavoce di AstraZeneca – nei test si possono verificare per caso più ampie reazioni ma devono essere valutate indipendemente con attenzione”. Il colosso farmaceutico con l’annuncio della sospensione ha perso il 6% a Wall Street.

Non è inconsueta per i test clinici una sospensione. Ma lo sviluppo del vaccino del coronavirus è tra i più sotto osservazione della storia e qualsiasi segnale che arriva dai test è vagliato con particolare attenzione. Anche se il vaccino di AstraZeneca fosse alla fine approvato, questa battuta d’arresto potrebbe tradursi in timori sul suo uso. I dati iniziali sui test sono apparsi molto promettenti, con il vaccino in grado di produrre una robusta risposta immunitaria  e solo deboli effetti collaterali. Lo scorso mese l’azienda ha reclutato circa 30 mila persone negli Usa per portare avanti il suo più vasto studio sul vaccino. Sta anche testando il vaccino, sviluppato dall’Università di Oxford, in Gran Bretagna, e sta portando avanti altre sperimentazioni in Brasile e Sud Africa. Due altri grandi test su altrettanti vaccini (con un meccanismo diverso da quello di AstraZeneca) sono in corso di svolgimento negli Stati Uniti, uno portato avanti da Moderna e l’altro da Pfizer con la tedesca BioNTech.

Coronavirus, nei laboratori di Oxford dove si testa il vaccino. L’immunologo italiano: “Primi risultati a settembre, la scienza combatte”

La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Botte da Covid: Paese di ultrà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Io ho paura di uscire di casa. Dico sul serio. Mica per il Covid, ma per la gente che c’è. Perché, insomma, è in corso una guerra civile, non so se viene siete accorti

“Io ho paura di uscire di casa. Dico sul serio. Mica per il Covid, ma per la gente che c’è. Perché, insomma, è in corso una guerra civile, non so se viene siete accorti.

Il popolo italiano, che sa sempre farsi riconoscere nella situazioni difficili, si è diviso in mascherinisti e antimascherinisti. Sono entrambe due fazioni molto pericolose, e se uscite è molto facile incappare in una delle due o in entrambe. Tipo a Roma, dove abito io, dei vigili sono stati picchiati da un gruppo di giovani antimascherinisti ai quali era stato chiesto di indossare la mascherina, come prevede la legge, dalle 18 alle 6 bisogna metterla (prima no perché il virus dorme). Gli antimascherinisti non guardano in faccia a nessuno, neppure alle forze dell’ordine. Si sentono dei ribelli, dei rivoluzionari, sono pronti a morire pur di non mettersi la mascherina, e se gli passi vicino e hai la mascherina capiscono subito che sei un mascherinista e ti guardano male, fai parte del complotto, ti vogliono uccidere. Io ho sempre la mia mascherina di Batman, finora è per questo che non mi hanno fatto mai niente, ma non è che mi senta molto sicuro.

D’altra parte ci sono anche i mascherinisti violenti. Loro non è che seguono le regole, di più. Sono i germofobici, sono quelli che si portavano già l’amuchina dietro fin da prima del Covid per disinfettarsi quando gli davi la mano, sono i salutisti che anche se ti accendi una sigaretta in un locale all’aperto ti dicono che il fumo sta andando dalla loro parte, se puoi cambiare posto, come se gli stessi trasmettendo un tumore istantaneo. A Venezia, infatti, è successo l’esatto contrario di quanto successo a Roma: un antimascherinista è salito su un traghetto e si è trovato circondato da mascherinisti incazzati. Stava per scoppiare una rissa, alla fine un mascherinista è intervenuto e gli ha dato un pugno e ha sbattuto l’antimascherinista fuori dal traghetto. Non saprei quale consiglio darvi per sopravvivere tra queste due pericolose fazioni di fanatici, il problema è che non si può stare in mezzo, con la mascherina a metà.

Forse conviene fare finta di essere in un film di zombi, dove gli zombi però potenzialmente sono tutti, anche gli umani normali, e cercate di mimetizzarvi e integrarvi a seconda delle situazioni. Tipo se in una strada vedete un gruppetto di mascherinisti e vi state avvicinando senza mascherina mettetevela subito, anche se siete all’aperto, anche se è mezzogiorno, e mentre gli passate spruzzatevi del gel disinfettante sulle mani, sarete subito dei loro e sarete salvi. Se però svoltato l’angolo vi trovate invece un branco di antimascheristi feroci toglietevela subito, sbuffate, buttatela per terra, calpestatela, bruciatela come fanno gli integralisti islamici con le bandiere americane. Tenete duro, tanto di questo passo tra poco siamo di nuovo in lockdown, e si ricomincia a vivere serenamente.” Il Giornale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La cancel culture crea mostri anche nel mondo dell’arte”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il giovane regista Daniele Bartolini porta alla Biennale Teatro uno spettacolo che svela i disastri del politicamente corretto in America

“Forse perché vive e lavora in Canada, immerso nella cultura anglosassone ormai da anni, con il suo centro di produzione «Dopolavoro teatrale». Forse perché appartiene alla «generazione di mezzo», i millennial che cercano sempre disperatamente di capire tutto.

Sta di fatto che per rispondere alla chiamata di Biennale Teatro sulla censura, il regista, drammaturgo e performer Daniele Bartolini ha scelto il tema culturale del momento, la cancel culture. Che però è anche il tema più spinoso e controverso che potesse selezionare. Così ha concepito The Right Way, sostenuto dall’Ambasciata canadese a Roma e da Villa Charities, il centro italocanadese a Toronto: spettacolo per un solo spettatore che apre e chiude la Biennale. Ogni giorno, a Cà Giustinian, per venti minuti a turno, tra le 10 e le 20, si va in scena dal 15 al 21 settembre. È prevista interazione con gli attori, utilizzo di un casco di realtà virtuale e pure alcune scene di nudo, per cui il tutto è adatto a un pubblico adulto: il fine è indagare, insieme a chi guarda, le conseguenze sulla produzione artistica e culturale di una nuova forma di censura.

Censura nel 2020, in Occidentale: pareva impossibile.

«Il mondo nordamericano e forse anche british attraversano un cambiamento radicale, mai visto prima. Se ne parla tanto, ma mi pare non ci sia comprensione esatta di ciò che sta accadendo nelle menti delle persone: le voci alle quali viene dato un microfono e consentito di esprimersi non sono più tutte quelle di prima».

Come ha deciso di affrontare la questione?

«Come se fossi un reporter che torna da un viaggio: il mio non è un atto di polemica, però la cancel culture qui in Canada, come in tutti gli Stati Uniti, è ormai un discorso enorme. Se commetti un errore o fai qualcosa che può essere ritenuto offensivo presso gruppi ritenuti di minoranza, si crede fermamente che tu debba sparire, essere cancellato, perdere il tuo posto di lavoro».

Le conseguenze sull’arte?

«Ad esempio, circolano documenti sulla revisione del linguaggio di Shakespeare, che potrebbe essere offensivo rispetto ad alcune minoranze. Ora, che tu lo ritenga giusto o no, è una correzione rispetto a un materiale che ha cinque secoli. Qui, ora, ha molto valore chi crea un’opera più ancora dell’opera, quindi ci si chiede: chi è autorizzato a parlare di determinati argomenti e chi non lo è? Ci viene detto che non possiamo parlare più di tutto: eppure di alcune cose, anche se non abbiamo conoscenza, abbiamo sensibilità».

Qualche esempio?

«Diciamo di sì. Al Pacino che in Scarface faceva il cubano oggi potrebbe essere ritenuto un caso di appropriazione culturale. Ricordate la black face di Carmelo Bene in Otello? Sarebbe inconcepibile, anzi, per qualcosa che andrebbe eliminato da un copione o da un testo, pena la mancata produzione artistica o rappresentazione o pubblicazione, è stata coniata un’espressione: problematic. Molte persone si stanno spaventando e non si stanno esprimendo per via della cancel culture perché non l’hanno mai affrontata. Altri stanno prendendo le misure e credo che presto ci saranno una serie di reazioni».

In che modo The Right Way indaga questa forma di censura?

«Mi sono chiesto che cosa perdiamo quando cerchiamo di essere a tutti i costi inclusivi e tolleranti, che cosa cerchiamo di cancellare per fare ordine. Quale può diventare quindi il ruolo dell’arte e dei suoi necessari meccanismi sovversivi? Oppure l’arte deve addirittura prestarsi a divulgare questi concetti?».

Che cosa accade nello spettacolo?

«Il mio artigianato teatrale avviene di solito fuori dallo spazio scenico teatro/platea e avviene in un ambiente site specific. In The Right Way lo spettatore entra nel cervello di un regista che si occupa di teatro di narrazione, il mio, attraverso un microfilm fatto in 3D con la virtual reality. E vede immagini legate ai temi di censura e autocensura contemporanea. Tolto il casco di realtà virtuale, lo spettatore dovrà provare a creare o correggere un’opera in diretta su un set cinematografico».

Su che cosa hai lavorato per il serbatoio di questo disorientamento?

«Alcuni punti di partenza sono stati la problematicità dell’essere bianco oggi o dell’essere italiano in Nord America rispetto alle minoranze, alla sessualità. Che cosa accade nella testa di un individuo nel momento in cui c’è un movimento molto forte che ti sussurra che cosa è giusto pensare e come è giusto agire? Sotto la spinta di queste censure, creeremo un mostro? Politicamente corretto ormai non va inteso nel senso di politicamente bilanciato, ma di rettificato con una correzione politica: quello che racconto è un processo di morte di un certo modo di intendere il fare cultura e il fare teatro».” Il Giornale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Agosto 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Migranti nudi davanti ai bimbi. L’ultimo schiaffo a chi li ospita

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 




 

Due episodi ieri in Sicilia che hanno sollevato l’indignazione dei cittadini. A Caltanissetta un migrante si è spogliato nel giardino pubblico per lavarsi e, ad Agrigento, degli extracomunitari si sono messi nudi in balcone davanti a bambini e donne.

Continua il fenomeno degli sbarchi di migranti e, con esso, anche i comportamenti che hanno ben poco a che fare con le buone maniere. Si potrebbe dire di essere abituati a pagine di cronaca che raccontano di come, più volte, i migranti ospiti nei centri di accoglienza delle città italiane si siano comportati ignorando non solo le leggi dello Stato che li ospita ma anche il buon senso e il rispetto delle altre persone.

Invece no, ogni comportamento di questo genere fa raccontare come i cittadini siano indignati e stanchi di una situazione che non ha nulla di normale. In ordine di tempo, gli ultimi episodi che hanno suscitato preoccupazione alimentando paura e rabbia fra la gente, sono stati quelli che si sono verificati ieri a Caltanissetta e ad Agrigento.

Iniziamo con Caltanissetta: qui, un migrante di origini africane si è recato nello storico e frequentato giardinopubblico di villa Amedeo spogliandosi degli indumenti. Praticamente nudo a cielo aperto, ha usato il giardino come un bagno per soddisfare le proprie esigenze fisiologiche e lavarsi. Ad immortalarlo uno scatto che ha fatto il giro del web con centinaia di condivisioni accompagnate da altrettante polemiche. “Accogliere clandestini di tutte le etnie facendoci anche carico di tutte le spese di mantenimento porterà nei nostri territori caos diffuso e violenza di ogni genere”. Questo il commento di un cittadino su Facebook che continua: “ Non abbiamo affatto bisogno di importare nuove forme di delinquenza e patologie. Ormeggiate a Porto Empedocle fanno bella mostra di se immense navi da crociera adibite a zone quarantena mentre il flusso di turisti stranieri paganti che aiuterebbe moltissimo la nostra Regione in piena stagione turistica è praticamente assente”.

Tra i commenti si legge ancora: “Troppo degrado” e poi anche: “Ormai la situazione è incontrollabile e non c’è la volontà di cambiarla”. Un evento spiacevole per il sindaco di Caltanissetta Roberto Gambino che ha voluto ancora una volta ringraziare le Forze dell’ordine per la risposta immediata nell’intervento, l’ennesimo, visto che, a Caltanissetta, sede di un centro di accoglienza, si sono verificati spesso episodi di una certa gravità come le fughe di massa da parte dei migranti.

Sulla vicenda consumatasi ieri nel centro nisseno è intervenuto anche il deputato della Lega Alessandro Pagano: “Si va ben oltre all’offesa del pubblico pudore e si sfocia nel totale disprezzo del comune vivere civile. È grave che nessun esponente del governo, abbia espresso una ferma condanna di quanto avvenuto. Evidentemente- ha detto il deputato del carroccio- per i rappresentanti del governo abusivo è normale che chi viene nel nostro Paese possa farlo senza regole. Non si può non reagire a cotanta arroganza di questo governo Giallorosso”.

Da Caltanissetta al Villaggio Mosè di Agrigento. Qui ieri sera i cittadini hanno assistito ad un altro episodio spiacevole. Alcuni extracomunitari che vivono in un appartamento privato si sono affacciati nudi in balcone non curanti della presenza di bambini e donne. “Come se nulla fosse e ignorando la nostra presenza- ci hanno raccontato alcuni residenti della zona- si sono messi a prendere aria fresca completamente nudi”. Lo “spettacolo” non accennava ad avere fine nel breve termine, gli stranieri non rispondevano all’invito dei cittadini di indossare degli indumenti e sono dovute intervenire le forze dell’ordine per riportare la situazione alla normalità. Ovviamente un episodio anche questo che ha sollevato indignazione: “Lo Stato non c’è ”, il commento più frequente fra gli agrigentini su Facebook.” Il Giornale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Raffaello che non ti aspetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Per entrare alla mostra di Raffaello, alle Scuderie del Quirinale, occorre arrivare qualche minuto prima dell’orario scelto al momento della prenotazione online, indicato sul biglietto. C’è tempo per riprendere fiato dopo la leggera salita e i sanpietrini, ma attendendo fuori dal Palazzo, contendendosi con il resto dei turisti la poca ombra sul piazzale, dietro le transenne.

L’appuntamento è alle 15. Un’addetta del museo puntualissima – chiama i nomi. Si entra uno alla volta, a gruppi di otto. «L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati», diceva Leo Longanesi. Oggi è una prenotazione obbligatoria via web.

Se l’emergenza sanitaria e l’apertura contingentata dei musei ti permettono di scegliere solo una mostra per il 2020, che sia questa. Nel cuore di Roma, nella testa di un genio.

Quando le Scuderie del Quirinale annunciarono la mostra di Raffello Sanzio in occasione del 500esimo anniversario dalla sua morte, inaugurata il 5 marzo dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella (poco prima che esplodesse la pandemia di Coronavirus), poi subito chiusa, l’inversione delle date nel titolo Raffaello 1520-1483 stupì tutti. E ancora colpisce, lì sui banner, vedere la data di morte precedere quella di nascita. Il divino Raffaello capovolto. Eppure l’idea di percorrere la parabola dell’artista a ritroso, partendo dalla grande tela ottocentesca del francese Pierre-Nolasque Bergeret Onori resi a Raffaello al suo capezzale di morte, posta ai piedi dello scalone che porta al primo piano, e poi, in cima, il commovente I funerali di Raffaello di Pietro Vanni (1900), è inappuntabile. E così, iniziando dalla fine, e finendo col suo principio, ecco l’avventura artistica e umana del pittore italiano tra i più celebri del Rinascimento, à rebours: da Roma alla giovinezza fiorentina, gli inizi nell’Umbria fino alla nativa Urbino. Morì, privilegio degli Immortali, lo stesso giorno in cui nacque, il 6 aprile, a 37 anni. Ille hic est Raphael, timuit qui sospite vinci, rerum magna parens et moriente mori. È l’epitaffio del Bembo. «Questi è quel Raffaello da cui, fin che visse, madre Natura temette d’esser superata e quando morì temette di morire con lui».

Oggi Raffaello è sepolto al Pantheon. Ed ecco, nella prima sala, la ricostruzione della monumentale tomba sormontata dalla Madonna del Sasso, scolpita dall’allievo di Raffaello, Lorenzetto, a grandezza quasi naturale: è più bassa solo di qualche spanna, perché i soffitti non permettevano la scala 1:1. È un’enorme stampa su metallo, realizzata da FactumArte, in cui anche toccandole fatichi a capire che persino le imperfezioni delle venature del marmo sono finte. Un fake, ma capolavoro.

In realtà l’intera mostra, curata da Marzia Faietti e Matteo Lafranconi, è un capolavoro. L’eccellenza italiana al suo meglio. Vale il fastidio della prenotazione, l’attesa al sole, la militarizzazione dei tempi e dei modi della visita, i 15 euro del biglietto. Molti dicono che dopo il Coronavirus sia il futuro delle mostre: poche, originali, di altissima qualità.

Durante il lockdown è restata in somno. A un certo punto si è potuta visitare virtualmente da casa, con video-racconti online sul sito e i canali social del museo. Ma, come si dice, a dimostrazione della freddezza di tutte le iniziative culturali da remoto, non è come esserci.

Eccoci. Riaperta simbolicamente il 2 giugno, festa della Repubblica, la mostra resterà visitabile fino alla fine di agosto, e le prenotazioni sono vicine al sold out. Dieci sale, duecento opere, un allestimento elegante – «La differenza tra qualcosa di buono e qualcosa di grande è l’attenzione ai dettagli», Charles R. Swindol – e almeno un capolavoro assoluto per stanza: il manoscritto della Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassarre Castiglione, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (1518), l’Apollo del Belvedere a penna e inchiostro (1513-15), l’Estasi di Santa Cecilia, la Madonna del Divino Amore (1516), la Fornarina (1519-1520) che hanno spostato qui da Palazzo Barberini, La Velata, un minuscolo quadretto che rappresenta Il sogno del cavaliere, il Ritratto di Tommaso Inghirami (1510-12), quello di Giulio II e là in fondo, alla fine, cioè l’inizio il celebre Autoritratto su tavola di pioppo (1506-08)… Impossibile rivedere in futuro, tutta insieme, una collezione simile.” Il Giornale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5G, stop alle ordinanze dei sindaci che bloccano le nuove antenne

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con il DL Semplificazioni, i primi cittadini dovranno attenersi alle direttive statali: se le infrastrutture rispetteranno i limiti di emissione dei campi elettromagnetici e i piani urbanistici, non potrà essere vietata la loro installazione

“Stop a ordinanze o provvedimenti da parte dei sindaci che vietino l’installazione delle antenne 5G sul proprio territorio. La misura è contenuta all’interno del DL Semplificazioni,  all’articolo 38, intitolato “Misure di semplificazione per reti e servizi di comunicazioni elettroniche”. Nello specifico, modifica l’art. 8 della legge 22 febbraio 2001, n. 36, comma 6, introducendo una nuova variante che stabilisce con chiarezza dei limiti ai regolamenti comunali. Questo il testo: «I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici con riferimento a siti sensibili individuati in modo specifico, con esclusione della possibilità di introdurre limitazioni alla localizzazione in aree generalizzate del territorio di stazioni radio base per reti di comunicazioni elettroniche di qualsiasi tipologia e, in ogni caso, di incidere, anche in via indiretta o mediante provvedimenti contingibili e urgenti, sui limiti di esposizione a campi elettrici, magnetici ed elettromagnetici, sui valori di attenzione e sugli obiettivi di qualità, riservati allo Stato ai sensi dell’articolo 4».

Questo significa che i sindaci dovranno attenersi alle direttive statali e non potranno intervenire per bloccare l’installazione qualsiasi tipologia di stazioni radio base, incluse quindi le antenne 5G. Se le infrastrutture, che sfruttano la nuova tecnologia, rispetteranno i limiti di emissione dei campi elettromagnetici e i piani urbanistici, allora i primi cittadini non potranno vietarne l’installazione. Con questa norma, quindi, si è voluto porre un freno ai tanti comuni che, anche recentemente, hanno bloccato i lavori per il 5G. La nuova tecnologia, infatti, è spesso ostacolata perché ritenuta nociva, senza però una validazione da parte delle autorità scientifiche. In questo senso le news diffuse durante la quarantena non hanno aiutato: nel Regno Unito, ad esempio, alcune torri sono state date alle fiamme da chi sostiene che 5G e Coronavirus siano collegati. Una bufala su cui, in Italia, è intervenuta l’Anci Associazione nazionale comuni italiani – che in una nota, inoltre, ha spiegato nel dettaglio la tecnologia 5G e chiarito le normative che la riguardano.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Luglio 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ecocardiogramma di Milano nell’App de «la Lettura». Newsletter con Verdone e Almudena Grandes

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Via email un testo del regista e attore (dal 30 luglio anche fotografo in mostra al Madre di Napoli, nell’ambito della Milanesiana) e l’incipit in anteprima de «La figlia ideale» (Guanda) dell’autrice spagnola. Nell’App il focus extra sull’installazione, visibile a Malpensa, che mostra in tempo reale lo stato d’animo della città

“Da filosofo della scienza amava approfondire i temi più ardui della modernità, ma stupiva per la luminosa competenza in ambiti inattesi, il fumetto o la letteratura irlandese: un’intelligenza aperta, disponibile, davvero libera. Con un ricordo a molte voci dedicato a un grande amico de «la Lettura» scomparso un mese fa, Giulio Giorello, si apre il supplemento, il #450, in edicola fino a sabato 18 luglio e nell’App per smartphone e tablet (disponibile su App Store per iPhone e iPad, o Google Play per Android).

Chi si abbona all’App de «la Lettura» può ricevere inoltre notifiche dalla redazione e la newsletter dell’inserto ogni venerdì via mail (ci si può iscrivere qui, anche autonomamente dall’App). L’abbonamento si può regalare accedendo a questa pagina. La newsletter in arrivo venerdì 17 luglio propone un testo di Carlo Verdone, il regista e attore che dal 30 luglio sarà anche protagonista – come fotografo – di una mostra al Madre di Napoli, nell’ambito della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Nella newsletter anche e l’incipit in anteprima del nuovo romanzo della scrittrice spagnola Almudena Grandes, «La figlia ideale» (in libreria dal 23 luglio per Guanda) e i consigli dalla redazione su cosa leggere, guardare ascoltare.

L’App, oltre al nuovo numero dell’inserto, notifiche e newsletter, offre quotidianamente un extra solo digitale, il Tema del Giorno. Venerdì 17 luglio è a cura di Marco Bruna ed è dedicato al progetto artistico dello studio modenese fuse*, che ha realizzato un’installazione audiovisiva nel Terminal 1 dell’aeroporto di Milano Malpensa. L’opera, intitolata Falin Mynd, è una sorta di ecocardiogramma del capoluogo lombardo, una mappa aggiornata in tempo reale che racconta lo stato d’animo della città attraverso i tweet dei suoi abitanti o dei suoi visitatori. Falin Mynd è visibile fino al prossimo ottobre ed è inserita nell’ambito della rassegna di arte digitale Nice To Meet You, ideata e curata dal centro di cultura digitale Meet e promossa da Sea – Aeroporti di Milano.

Il Tema del Giorno di giovedì 16 luglio, ancora visibile nella sezione «Temi» dell’App, era invece dedicato agli adolescenti scrittori, con esempi proposti da Severino Colombo. Ricordando che la stessa Chimamanda Ngozi Adichie scrisse le prime poesie da teenager oppure che Christopher Paolini pubblicò a 15 anni il romanzo fantasy Eragon (poi uscito in Italia nel 2004 da Fabbri). Nel supplemento in edicola e nell’App, inoltre, l’articolo di Cristina Taglietti sullo scrittore esordiente Alessandro Valenti, diciassettenne autore del romanzo generazionale Ho provato a morire e non ci sono riuscito, pubblicato da Blu Atlantide.

Sempre nella sezione «Temi», Cecilia Bressanelli guarda ai film (e alle serie tv) ambientati su Marte. Un percorso che dal cinema muto porta fino a Netflix, tra esplorazioni, invasioni e incontri spaziali che hanno visto arrivare sul Pianeta rosso, Matt Damon in Sopravvissuto – The Martian, Brad Pitt in Ad Astra; mentre la prossima missione marziana sullo schermo (la serie Away, a settembre su Netflix) avrà per protagonista Hilary Swank. Mentre il supplemento ospita l’articolo di Giovanni Caprara e l’intrervista di Emilio Cozzi al geologo Francesco Salese sulle tre sonde di Stati Uniti, Cina ed Emirati Arabi Uniti destinate a partire in questi giorni per Marte.

Si può ancor leggere, inoltre, l’extra di Alessio Lana e dedicato ai dinosauri. O meglio ai giochi e videogiochi che, complici cinema e letteratura, traggo ispirazione da animali estinti: T-rex in fuga, diplodochi da sfamare, velociraptor in tenuta da combattimento. Mentre nel supplemento l’articolo di Danilo Zagaria esplora il libro Fossili fantastici e chi li ha trovati (Aboca) in cui il paleontologo Donald R. Prothero ha raccolto 25 storie di dinosauri. In un altro Tema, invece, Ida Bozzi ricorda gli scrittori che hanno tradotto altri scrittori. Un modo per comprendere un testo amato è farne la traduzione: spesso ne nasce un incontro, un’affascinante contaminazione tra due «penne» affini. Uno dei casi celebri è la versione che Umberto Eco fece degli Esercizi di stile di Raymond Queneau. E poi Natalia Ginzburg che divenne la voce italiana di Gustave Flaubert, Antonio Tabucchi di Fernando Pessoa, Michele Mari di John Steinbeck. E nel supplemento l’articolo di Roberto Galaverni sul volume di Giorgio Caproni  «Pianto per Ignazio». Versioni da García Lorca e altri poeti ispanici(Feltrinelli): un’antologia che raccoglie le traduzioni dallo spagnolo del poeta livornese. Mentre l’extra del 12 luglio, firmato da Silvia Peppoloni, è dedicato ai vulcani, protagonisti anche della visual data di Michela Lazzaroni nel supplemento (che analizza i 10 con il maggior numero di abitanti entro un raggio di 5 chilometri).” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sophia Loren e il pianto sconsolato per Morricone: «Sto rimanendo sola…»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’attrice ha appreso della scomparsa del Maestro nella sua casa di Ginevra: «Ho passato tutta la mattina a rivedere i film di Sergio Leone: quanto dispiacere»

“Sophia Loren, dalla sua casa di Ginevra, piange sconsolata la morte di Ennio Morricone, che ha reso grande il cinema e l’ha spesso emozionata come spettatrice. «Ho passato una mattinata davvero triste, appena ho saputo la notizia mi sono messa a riascoltare brani di tutti i film che lui aveva musicato, sono tanti, sono belli, a cominciare da quelli di Sergio Leone che lasciano dentro una traccia indelebile».Lo dice la Loren che ha interpretato film in cui ha lasciato divertenti memorie musicali, cantando come in Un marito per Cinziae Pane amore e…in cui si scatena con De Sica nel Mambo italiano, senza contare il musical L’uomo della Mancha e That’s amore. Erano canzoni, spesso allegre, ma questa è un’ora triste e si parla di un uomo che ha saputo leggere nelle intenzioni del regista, diventando una specie di alter ego, come Rota con Fellini, Williams con Spielberg, Herrmann con Hitchcock… «Sono ancora sottosopra. Le assicuro che questa mattina ho passato momenti bruttissimi e subito ho preso a guardare spezzoni di tutti i suoi film, non so quanti ne ho visti, a cominciare da quelli diretti da Leone di cui era l’anima».

L’ultima diva divina nella sua lunga carriera non ha mai avuto occasione di recitare in film che avessero la sua colonna sonora.
«No, purtroppo non abbiamo mai lavorato insieme ed è un grosso dispiacere, ma cosa vuole, il nostro lavoro è così, che vò fa?».

Qual era il suo tratto distintivo?
«Era un uomo pieno di calore, con un’anima davvero grande grande. Ed è andato via».

Le sarebbe piaciuto averlo compositore per un suo film?
«Eh sì, lo so, purtroppo non si può avere tutto, non è mai capitato. Le vie del cinema non sono controllabili».

L’aveva conosciuto durante la carriera?
«Ci siamo visti nel corso di un gala in America, una di quelle serate ufficiali che raggruppano molte celebrità del cinema, ed è stato un piacere potergli parlare di persona perché avevo la fortuna di averlo seduto accanto».

Che uomo era?
«Un uomo adorabile, sensibile, meraviglioso, anche bello e nel suo insieme molto affascinante. Una grave perdita. Purtroppo restiamo sempre più soli, i grandi poco alla volta se ne vanno, ma è la legge della vita».

Era apprezzato dagli americani?
«Dagli americani? Ma scherza? Era apprezzato da tutto il mondo, se ne sono accorti tutti subito, perché aveva un’anima meravigliosa che ne faceva un uomo straordinario». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Spinoza aveva Ragione a insegnarci la libertà”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Maxime Rovere racconta la vita, l’opera e il mondo del filosofo: “Non fu un martire e neanche un reietto”

A volte basta un Ventennio per cambiare la storia di un Paese, ed è quello che è successo in Olanda, fra il 1648 e il 1672, l’epoca della ware vrijheid, la «vera libertà»: la guerra con la Spagna era finalmente conclusa, le diverse confessioni si erano unite contro il nemico, i commerci con il Nuovo mondo erano una fonte costante di ricchezza per una nazione piccola e indipendente, una Repubblica in cui si sperimentava una tolleranza eccezionale, per l’Europa dell’epoca.

Innanzitutto, Tutte le vite di Spinoza non è un saggio: è basato su fonti, testi, lettere e documenti ma è un romanzo storico a tutti gli effetti, bellissimo nel suo genere, un romanzo in cui i protagonisti sono Spinoza, l’Olanda del Seicento, gli ebrei scappati da Spagna e Portogallo per sfuggire alle persecuzioni, come i genitori di Spinoza, i mercanti furbissimi e ricchissimi, i rabbini litigiosi, gli scienziati e gli «intellettuali», alcuni dei quali amici e sostenitori, altri nemici giurati, di Spinoza stesso, e fra i quali si svolgono dialoghi realistici, rozzi, spassosi (come quello fra Spinoza e Leibniz). Fra gli amici, racconta Rovere, «Lodewijk Meyer, il suo amico filosofo cartesiano, che lavora sui suoi testi per renderli dei libri, insieme all’editore, Jan Rieuwertsz; Simon De Vries, che in letto di morte diventa il suo mecenate; Jarig Jellesz, che lavora con lui sulla verità, in tutte le sue forme; e Stenone, l’anatomista, l’unico che si dichiari, pubblicamente, amico di Spinoza». Non sono discepoli o seguaci: sono, anche loro, una delle tante facce dello «spinozismo», un termine che, a un certo punto, quasi sostituisce il cartesianesimo come sinonimo di razionalismo, anche se «Spinoza è il simbolo di una Ragione diversa, più aperta alle emozioni e alla comprensione». Ed è proprio lei, la Ragione, la vera protagonista del romanzo di Spinoza, un uomo che, del resto, «riteneva che la singolarità degli individui non fosse importante, e faceva del suo meglio affinché la Ragione, essa stessa, scrivesse i suoi libri». Questa Ragione, dice Rovere, «è come l’assassino in un giallo: nessuno sa chi sia e che cosa sia… Nell’Europa del Seicento, proprio come oggi, c’era chi la amava e chi la temeva, e chi avrebbe voluto controllarla: non è la storia di un gruppo di filosofi eroici che difendono la Ragione contro degli oscurantisti stupidi e superstiziosi. La Ragione è più sottile, più fragile, ed è per questo che muore, alla fine».

A Rovere piace sfatare certi miti, non solo quello della lotta della Ragione contro l’oscurantismo, anche quello, per esempio, dello Spinoza martire: «Il martire soffre per la propria fede, mentre Spinoza non ha sofferto molto, anzi, era sempre protetto da amici potenti; e poi non aveva una fede da difendere perché, per lui, la verità e la ragione trionfano da sole: non c’è bisogno di difenderle o credere in esse, come non c’è bisogno di credere nel Sole, o di difenderlo». Poi ci sono «tre leggende» sul filosofo di Amsterdam che non corrispondono a realtà: «Primo, che sia stato scomunicato dalla comunità ebraica per le sue idee; secondo, che si mantenesse lavorando lenti; terzo, che fosse una sorta di reietto, un emarginato, condannato dai poteri ufficiali». Le fonti dicono altro: Spinoza uscì dalla comunità ebraica, si interessava di ottica ma si manteneva grazie alla generosità degli amici, aveva protettori influenti. Certo, la fama di eretico lo accompagna e, da quando il Trattato viene pubblicato, anonimo, nel 1670, lo scandalo avvolge il suo nome, anche fra i «colleghi»: «La domanda è: qual è l’istituzione che deve organizzare la ricerca umana della verità? Fino al ‘500, in Europa la risposta è: la Chiesa cattolica. Poi, nel ‘600, i circoli galileiani e cartesiani, la Riforma e le guerre di religione impongono un confine rigido fra scienza e religione, entro il quale ciascuno può lavorare e pubblicare libri in pace. Ma Spinoza e i suoi amici varcano quella frontiera, perché dicono che la ragione ha una dimensione spirituale, e questo è un choc, per tutti». Il Giornale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Volti e corpi. Giotto e Pasolini. Omaggio di Sutri alla bellezza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dal 26 giugno fino al 17 gennaio al museo di Palazzo Doebbing la grande esposizione. In un gioco di rimandi, dal VI secolo ad oggi, 250 opere accomunate da un’unica ricerca

“Le città d’arte sono ancora deserte «causa Covid». Per allestire mostre, dunque, occorre coraggio. Ma poiché l’arte è vita, e senza vita non c’è arte, a Sutri, Tuscia, in provincia di Viterbo, luogo eccelso di arte e di storia, la mostra Da Giotto a Pasolini ha già centrato un obiettivo — di salute e sanitario —, ancor prima di cominciare: irrobustire il sistema immunitario dei corpi fisici e del corpo sociale attraverso il godimento della bellezza.

Come possa una mostra di opere d’arte — ben 250, dal VI secolo a oggi, diversissime tra loro — ottenere un simile risultato è spiegabile se alla bellezza delle opere esposte si aggiungono due parole. La prima è «collisione», la seconda è un nome proprio, Sgarbi, sindaco di Sutri e ideatore degli Incontri a Sutri (che anche quest’anno si tengono al Museo di Palazzo Doebbing, da oggi al 17 gennaio 2021).

Ora, è vero che collisione e Sgarbi non sono un ossimoro, ma qui la collisione «è quella tra esperienze artistiche lontane e diverse — dice Vittorio Sgarbi —, e racconta la vita di persone legate da una originale vocazione alla ricerca del bello». Ed è proprio da questa singolare collisione — attraverso quindici secoli — di dipinti, sculture, oggetti di raffinatissima arte orafa, fotografie, che si libera l’energia ricostituente della mostra Da Giotto a Pasolini. Nella quale, più delle epoche, contano la storia di Dio e la storia dell’uomo, come avviene per esempio nella felice «collisione» dei Petala aurea, lamine d’oro longobarde e bizantine che adornavano abiti da cerimonia ma anche manufatti di avorio e di cuoio, e due capolavori di Giotto, la Madonna e il Crocifisso della collezione Sgarbossa di Cittadella.

I gioielli degli artigiani longobardi e bizantini, della fondazione Luigi Rovati, testimonianza del potere temporale della Chiesa simbolicamente e formalmente consolidatosi con la Donazione di Sutri del 728, ci parlano di Dio Padre nella sua ieratica maestà, mentre i dipinti di Giotto ci raccontano Dio Figlio, il Cristo, e sua Madre nella loro umana fragilità, che è il dolore, la passione e quindi la vita di tutti gli uomini, dell’Uomo.

Ecco perché la mostra parte «da Giotto». Perché è con lui, dice Sgarbi, che comincia il linguaggio moderno nell’arte, è con Giotto che ogni immagine sacra diventa umanissima e arriva al cuore e alla mente degli uomini.

Da Giotto», dunque, d’accordo. Ma perché, attraverso altri dodici artisti, «a Pasolini»? Qual è il filo comune, oltre alla originale vocazione per il bello, che li tiene assieme? Ancora una volta, la vita, che esiste attraverso il corpo fisico e che fa esperienza di sé attraverso la decomposizione di quel corpo, fino alla morte, alla quale non può sfuggire e che può tutt’al più rappresentare, con uno sforzo mistico, come un corpo sacro o come nostalgia di una bellezza perduta.

Le fotografie degli ultimi giorni di Pier Paolo Pasolini, ritratto da Dino Prediali a ottobre del 1975, sono esattamente questo, il salvataggio del suo corpo intatto prima che il 2 dicembre successivo Pasolini venisse assassinato e quel corpo orrendamente sfigurato, diventando, dice Sgarbi, «una scultura dolorosa come un crocefisso».

Con questa chiave si comprendono facilmente anche le altre «collisioni» della mostra di Sutri. L’umanità «imballata» del polacco Tadeusz Kantor, il quale aspira alla vita, vuole la vita, e tuttavia si predispone a incontrare continuamente la morte, specialmente nel suo luogo prediletto, il teatro, ma per poterla esorcizzare, anche con la ribellione dell’uomo costretto negli «imballaggi» del potere.

Oppure l’umanità dei cadaveri di Ora d’aria, di Cesare Inzerillo, che sono morti ma non sanno di esserlo e che prendono il sole distesi su un’amaca, come se non fossero già trapassati e tentassero di essere, da morti, ciò che non sono stati da vivi. Si può saltare tranquillamente all’indietro di due secoli e «collidere» con i paesaggi romani del tedesco Franz Ludwig Catel, che trova la vita nell’incantamento della natura e nel suo mistero divino.

Oppure risalire ancora di più nel tempo, di quattro secoli, con l’olandese Gherardo delle Notti, che con San Sebastiano curato da Irene dipinge il pathos della vita attraverso un gioco caravaggesco di luci, di sguardi, di emozioni. Mentre Guido Venanzoni, contemporaneo, quasi arriva a identificarsi con Caravaggio, dipingendone tutti i momenti più significativi della vita e anche la morte.

«Di Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Tiziano sono stati dipinti tanti momenti salienti della vita – dice Sgarbi -. Mai però un ciclo così ampio da poter essere definito un film come ha fatto Venanzoni con Caravaggio». Le «collisioni» di Sutri però non finiscono qui. Continuano con Justin Bradshaw, Chiara Caselli, Alessio Deli, Mirna Manni, Massimo Rossetti e Livio Scarpella, in ordine solo alfabetico.”

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

giugno 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le 100 società mondiali che hanno guadagnato in Borsa con la pandemia di Covid-19

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“I settori che hanno battuto il virus, +401,1 miliardi per Amazon

Farmaceutica. tecnologia, grande distribuzione online. Sono i tre settori usciti vincitori dalla crisi: i primi per la corsa al vaccino contro il Covid-19, i secondi per la diffusione repentina e mondiale del lavoro da casa, lo «smart working», i terzi perché hanno consentito di acquistare beni di prima necessità online. Molte delle società quotate hanno vissuto un autentico boom delle quotazioni a partire da inizio 2020. Molti pensano che si sia creata una nuova bolla, evidenzia il Financial Times passando in rassegna i 1oo gruppi che sono maggiormente cresciuti in Borsa, per migliaia di miliardi di dollari complessivamente. Ecco alcuni dei casi più clamorosi.

In testa fra i giganti che sono cresciuti ancora di più c’è Amazon, +401,1 miliardi di dollari la capitalizzazione. Il distributore di tutto durante il lockdown tanto che a un certo punto — ricorda il FT — dovette chiudere temporaneamente i suoi magazzini a prodotti «non essenziali». Anche i costi sono saliti: il colosso di Jeffe Bezos ha speso 4 miliardi in più per proteggere i dipendenti dal contagio del coronavirus, con strumenti e apparecchiature che potrebbero diventare definitivi , di uso quotidiano.

Microsoft, +269,9 miliardi di dollari, l’esplosione di Teams

Sono più che triplicati gli utenti in un solo giorno della app di videochiamate di Microsoft, Teams. La app di comunicazione è stata usata da 75 milioni di persone in un solo giorno di aprile, rispetto ai 20 milioni di fine 2019. Il gigante guidato da Satya Nadella — al secondo posto per incremento dei valori di Borsa — ha azzeccato lo spostamento del focus strategico sul cloud, con Azure che è diventata una parte più critica del backbone digitale per molte aziende. Inoltre 90 milioni di giocatori — un record — hanno usato per giocare la Xbox Live ad aprile.

Tesla: +108,4 miliardi di dollari con le batterie più durature

Durano sempre di più le batterie Tesla, al quarto posto dopo Apple che è al terzo posto per aver guadagnato invece 291,1 miliardi di dollari in più . La Tesla Model S adesso consente di guidare per 402 miglia (646 chilometri) prima di aver bisogno di una ricarica. Inoltre Musk pensa ad ampliare il mercato dell’auto varando flotte di robo-taxi a guida autonoma, che l’utente pagherebbe a chilometo. Il genio suo inventore, Elon Musk, a maggio aveva detto che il prezzo delle azioni del suo gruppo era tropo alto. Ma da allora ha continuato a crescere.

Zoom Video, +47,9 miliardi di dollari

La conoscevano ancora relativamente in pochi, durante la pandemia è letteralmente esplosa grazie allo smart working. La piattaforma di comunicazione Zoom Video — al 15esimo posto nella classifica FT — è di fatto diventata un social network con oltre 300 milioni di utenti quotidiani. La crescita della capitalizzazione in circa sei mesi è stata esplosiva, +255%. Alla fine di aprile, il numero di aziende di medie e grandi dimensioni che utilizzano Zoom è aumentato di oltre tre volte rispetto all’anno precedente, mentre le entrate sono aumentate del 169%.

Tencent, +93 miliardi di dollari, la corsa della Cina

Che hanno fatto i cinesi durante il lockdown stretto imposto dalle autorità di Pechino? Hanno giocato ai videogiochi. E i ricavi di Tencent — al quinto posto nella classifica FT — dai giochi online sono aumentati del 31% nel primo trimestre. Il numero di abbonati video di Tencent è salito a 112 milioni, i gli «streamer» musicali a 43 milioni e gli utenti mensili della sua app di social media WeChat a 1,2 miliardi. Tencent – sottolinea il FT — ha approfittato dei crolli di Borsa (degli altri) per acquistare lo sviluppatore di giochi norvegese Funcom, prendere una quota nello sviluppatore tedesco Yager e finanziare una serie di start-up fintech.

Audi, +37,8 milioni di dollari

Al 18esimo posto nella classifica del Financial Times compare il primo gruppo europeo, la tedesca Audi. Non è tanto per i risultati di fine anno che hanno reso il marchio del gruppo Volkswagen (VW) il più grande tra i dodici della casa automobilistica. Il Covid ha pesantemente impattato sul settore, nei primi mesi del 2020. Ma la casa madre ha annunciato che ricomprerà le azioni di minoranza ancora in circolazione, e questo ha dato una spinta al titolo, praticamente raddoppiato di valore.

Roche, +27,1 miliardi di dollari

Doppia spinta per il colosso farmaceutico svizzero Roche. Da un lato il successo del suo test anti-Covid, che consente di rintracciare gli anticorpi con una sensitività del 100%. Il gruppo inoltre sta testando un nuovo farmaco contro l’artrite che promette enormi sviluppi. Roche è al 26esimo posto nella classifica ma l’incremento di Borsa è lontanissimo da quelli tecnologici: +9,8%

La classifica completa 1/6

Ecco la classifica delle 100 società che hanno visto aumentare maggiormente la capitalizzazione da inizio anno. È stata redatta dal Financial Times. L’ordine è per aumento in valore assoluto, con accanto la percentuale di incremento delle quotazioni. Ci sono gruppi che hanno più che raddoppiato il valore di Borsa in appena sei mesi.

Fabrizio Massaro

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ferdinando d’Aragona morì insufficienza cardiaca (e non per un intruglio di afrodisiaci)

Lo studio spagnolo mette fine a un mito sul decesso del sovrano che avrebbe assunto sostanze per migliorare la prestazione sessuale. La causa di morte sarebbero dispnea e problemi cardiaci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Il re Ferdinando II d’Aragona (1452-1516), detto Ferdinando il Cattolico, marito di Isabella di Castiglia, morì per insufficienza cardiaca e non per l’assunzione smodata di afrodisiaci. È quanto emerge da un nuovo studio storico-scientifico firmato da due studiosi spagnoli, lo storico Jaime Elipe e il medico Beatriz Villagrasa, autori dell’articolo «La fine di un mito: cause cliniche della morte di Ferdinando il Cattolico», pubblicato su «Studium», rivista di studi umanistici dell’Università di Saragozza, come riferisce il quotidiano madrileno «El Mundo».

L’abuso di afrodisiaci

La morte del sovrano, che unificò i regni di Castiglia e Aragona gettando le basi della moderna Spagna e riconquistò Granada e sostenne il viaggio di Cristoforo Colombo alla scoperta dell’America, fu attribuita fin dall’immediatezza, dalle cronache dell’epoca, all’abuso di intrugli afrodisiaci, a base di testicoli di toro e cantaridina, una sostanza prodotta dai coleotteri. Questa causa del decesso, che la storiografia non ha messo in discussione nel corso dei secoli, è stata smentita ora dallo studio che indica l’insufficienza cardiaca come l’ipotesi «più plausibile» del deterioramento fisico che pose fine alla vita del monarca.

I malesseri

Dal 10 marzo 1513, giorno in cui compì 61 anni, il Ferdinando II d’Aragona «non si sentì mai più in salute», iniziando ripetutamente a vomitare e finendo in preda a una «febbre sconosciuta»: così scrisse il cortigiano umanista lombardo Pietro Martire d’Anghiera, raccontando in seguito della sua ingestione di una miscela afrodisiaca fornita dalla sua giovane moglie, la regina Germana de Foix, che aveva sposato dopo la morte di Isabella la Cattolica, per migliorare la sua potenza sessuale . Quasi tre anni dopo, segnato da un deterioramento fisico e mentale, Ferdinando II morì il 23 gennaio 1516. Come spiega Elipe, «si è sempre raccontato che il re era morto per un intruglio che gli aveva rovinato la salute, ma nessuno si era fermato a vedere se fosse vero o no. È molto più affascinante pensare che sia morto di afrodisiaci! Ma abbiamo visto che l’ipotesi non regge: è un’invenzione, un mito».

Il quadro clinico

Per tracciare un quadro clinico, i due specialisti autori della ricerca hanno analizzato le lettere dell’umanista Pietro Martire d’Anghiera, che si sofferma una ventina di volte sullo stato di salute di Ferdinando il Cattolico negli ultimi tre anni della sua vita. Lo studio indica che già nell’autunno del 1513 il cortigiano mostrò la sua preoccupazione per lo stato di salute del monarca. Sosteneva che «non aveva né lo stesso volto, né la stessa attenzione all’ascolto, né la stessa gentilezza». E un mese dopo, riferiva di dispnea o difficoltà respiratoria. Con il nuovo anno si aggiunsero disagio gastrico («calli nello stomaco») e bruciore. In seguito apparve un altro dei sintomi rilevanti del suo deterioramento fisico, l’edema, con continue difficoltà respiratorie. Per la dottoressa Villagrasa, l’ipotesi «più plausibile» è che Ferdinando II sia morto per insufficienza cardiaca. E spiega che «l’angoscia respiratoria è la prima cosa che appare un anno e mezzo dopo l’edema. Con questi due sintomi guida e l’evoluzione che il quadro clinico ha avuto si è messo a fuoco l’insufficienza cardiaca più che un’insufficienza renale o epatica». I due ricercatori non escludono che il re abbia ingerito intrugli per migliorare la sua potenza sessuale ma escludono che sia stata la causa della sua morte. Secondo Villagrasa, «è molto improbabile. Il sovrano sviluppò una patologia che lo portò alla morte in più di due anni. Non possiamo dire che sia la verità assoluta, perché ci manca l’autopsia».” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Voli, ecco regole europee per gli aerei: mascherine e distanza di 1,5 metri a bordo solo se possibile

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le linee guida di Ecdc ed Easa. L’allarme scatta a 38 °C, autocertificazione sullo stato di salute durante il check-in, pochi bagagli a mano e nuove procedure di imbarco e sbarco

“Le autorità europee in materia di salute e sicurezza aerea raccomandano, ma non rendono obbligatorio, il distanziamento sociale in volo, preferendo piuttosto affidarsi all’uso costante delle mascherine e delle soluzioni disinfettanti. Una posizione che finisce per scontrarsi con la decisione dell’Italia di imporre negli aeromobili uno spazio interpersonale di un metro almeno fino al 3 giugno. È quanto si legge nelle prime linee guida dell’Easa (Agenzia europea per la sicurezza aerea) e dell’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) per regolare il ritorno ai viaggi in aereo nel Vecchio Continente durante l’emergenza coronavirus.

Il documento

Nelle 28 pagine Easa ed Ecdc portano a 1,5 metri lo spazio minimo tra due soggetti, quindi più del metro previsto in Italia. E scrivono che «dove consentito dal numero di passeggeri, dalla configurazione della cabina e dai requisiti sulla distribuzione dei pesi a bordo» le compagnie aeree «dovrebbero assicurare la distanza fisica» tra i viaggiatori. Famiglie e individui che viaggiano assieme «possono sedersi uno di fianco all’altro». Se il distanziamento non può essere garantito «per i tassi di riempimento, la posizione dei sedili o altre restrizioni operative» allora il requisito base diventa quello della mascherina.

Mascherine per tutto il viaggio

Se il mancato obbligo della distanza sociale è una «vittoria» per compagnie aeree e aeroporti — anche per ragioni economiche —, le autorità nazionali possono comunque adottare misure più drastiche. Non solo. Dall’ingresso in aeroporto e fino al termine del viaggio i passeggeri sono tenuti a indossare la mascherina, eccezion fatta per chi ha meno di 6 anni. I viaggiatori devono ricordarsi che il loro dispositivo di protezione delle vie respiratorie dovrà essere cambiato ogni quattro ore circa e quindi devono «assicurarsi di portarsene un numero sufficiente per concludere il viaggio».

Le sanzioni

Norme rigide, secondo le due autorità europee, dovrebbero essere adottate nei confronti dei trasgressori. Chi non indossa una mascherina non deve entrare in aeroporto o in aereo. Una volta a bordo se scoperto senza la protezione dovrebbe essere fatto sbarcare prima del decollo. Se invece la mascherina viene meno in volo allora bisogna applicare le procedure relative agli «unruly passengers», quelli che poi vengono consegnati alle forze dell’ordine all’arrivo perché molesti o violenti.

L’autocertificazione digitale

In generale l’accesso al terminal deve essere limitato soltanto ai passeggeri — scrivono Easa ed Ecdc — e l’allarme al controllo della temperatura corporea dovrebbe scattare con soggetti che hanno almeno 38 gradi centigradi secondo il termoscanner (in Italia è 37,5). Le due agenzie, poi, suggeriscono la compilazione di un’autocertificazione sul proprio stato di salute al momento del check-in online prima di ottenere la carta d’imbarco. Le compagnie dovrebbero anche chiarire le conseguenze penali che ci potrebbero essere in caso di falsa dichiarazione. Per evitare una duplicazione, i passeggeri che arrivano da voli Ue/Spazio economico europeo e che sono stati già sottoposti a screening alla partenza dovrebbero essere esentati dal controllo allo sbarco.

No al «passaporto d’immunità»

Per evitare che gli individui pur non stando bene si presentino all’imbarco Easa ed Ecdc invitano le compagnie a offrire incentivi come la possibilità di cambiare la prenotazione gratuitamente o il rimborso del biglietto presentando la certificazione medica. Il documento però boccia i test sanitari proposti — come quelli sierologici — per rilasciare il «passaporto d’immunità» perché secondo le agenzie le evidenze scientifiche sul tema sono insufficienti al momento. Un passaggio che, tra le altre cose, metterebbe in discussione l’idea della Regione Sardegna di far accedere solo dopo un tampone o il test sierologico.

L’imbarco e lo sbarco

Molto dovrebbe cambiare anche nelle procedure subito prima, durante e dopo il volo. Intanto l’imbarco sui finger, per esempio, deve iniziare con la chiamata dei passeggeri seduti a partire dall’ultima fila. In alternativa si può far imbarcare prima quelli seduti lungo i finestrini, quindi quelli al posto centrale e infine quelli con il sedile sul lato corridoio. Si consiglia poi di minimizzare la quantità di bagaglio a mano in cabina per permettere un imbarco fluido. La fase di sbarco dovrebbe prevedere l’uscita ordinata per file, da quelle più vicine alla porta, partendo da quelli lungo il corridoio, poi posto centrale, quindi finestrino.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

maggio 2020:

 

 

 

 

 

 

Dalla ricetta della longevità al digiuno. Come il cibo influenza il cervello: «Pillole per la mente»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un ciclo di otto conferenze online organizzate da BrainCircle Italia a partire da lunedì 11 maggio per riflettere insieme a studiosi internazionali sul rapporto tra alimentazione e salute mentale

“In questi mesi di confinamento, tutto chiuso salvo i negozi di alimentari, l’attenzione delle famiglie, giocoforza, si è concentrata sul cibo, unico svago consentito. La passeggiata per l’acquisto degli ingredienti, le ricette riscoperte e condivise sui social, le cene collegati online. C’è chi è ingrassato per lo scarso moto e la soverchia golosità, chi è dimagrito per la fatica di cucinare e fare smart working tenendo a bada i figli in studio a distanza, i congiunti innervositi dalla clausura, il traffico telefonico e gli animali domestici depressi.

Del cibo, e del suo rapporto con il cervello, si occupa una serie di conferenze online, pillole per la mente: come l’alimentazione influenza il cervello, organizzate a partire da lunedì 11 maggio da Brain Circeo Italia, l’Associazione no profit fondata da Viviana Kasam insieme a Rita Levi Montalcini, che ne è stata presidente onorario fin alla fine della sua vita. L’Associazione, nata lo scopo di divulgare le neuroscienze al grande pubblico, soprattutto ai giovani, punta sulla ricerca internazionale d’avanguardia comunicata in modo innovativo e anticonformista. Conferenze nei teatri, il festival Cervello&Cinema, prima alla Cineteca Oberdan, poi all’Anteo di Milano e alla Casa del Cinema a Villa Borghese a Roma, i BrainForum inernazionali, le tre edizioni di La scienza e noi all’Eliseo di Roma, i festival in tutta Italia e la mostra Il Colore del Pensiero, fotografie del cervello realizzate con la tecnica Brainbow, accoppiate a capolavori dell’arte contemporanea, che ha girato tutta Europa. «Pillole per la mente — spiega Viviana Kasam — nasce dal desiderio di raccontare come l’alimentazione influisce non solo sul nostro benessere fisico, ma anche sui nostri pensieri, i nostri comportamenti, il nostro sviluppo, le nostre emozioni, la nostra salute mentale, insomma».

Il progetto, nato in collaborazione con BrainCircle Lugano e con Clara Caverzasio, presidente del Comitato Scientifico e nota divulgatrice scientifica ticinese, propone una serie di riflessioni non convenzionali sulle abitudini alimentari.
Si parte dall’incontro di lunedì 11 maggio con Telmo Pievani, filosofo della scienza ed evoluzionista tra i più prestigiosi a livello internazionale, dedicato al tema «Pensiamo quello che mangiamo? Il rapporto tra l’evoluzione dell’Homo sapiens e la progressiva varietà della sua dieta»: carne, tuberi, selezione delle piante, l’analisi di un lungo percorso (che smonta la bufala della «paleodieta»).

Si prosegue fino a giugno con otto conferenze di mezz’ora che spaziano dalla «Ricetta della longevità» esaminata dall’immunologo Claudio Franceschi al ruolo dell’intestino, il nostro «secondo cervello» che contiene cento milioni di neuroni e risente direttamente di stress ed emozioni, spiegato da Florian Bihl, docente di Gastroenterologia presso l’Università di Ginevra. Tra i temi che saranno trattati, anche il digiuno, pratica presente con varie modalità in diverse culture e capace di influire, oltre che sulla fisiologia, sui nostri processi cognitivi: se ne discute con Massimiliano Sassoli de’ Bianchi, ricercatore presso l’Università VUB di Bruxelles e direttore del Laboratorio di Autoricerca di Base a Lugano.
E ancora: «Il dilemma dell’onnivoro, perché c’è chi rifiuta di mangiare qualsiasi cibo verde, chi detesta i dolci e ama solo il salato, chi diventa vegano e chi si ingozza di junk food?». Come il cervello sviluppa la propensione verso il cibo ma condiziona anche disfunzioni alimentari e rifiuto di nutrirsi: sarà il tema dell’incontro con
Raffaella Rumiati, professoressa di Neuroscienze cognitive alla Scuola Superiore di Studi Avanzati-Sissa di Trieste.”

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Antichi romani maestri del riciclo: anche a Pompei la raccolta era differenziata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“NON illudiamoci, non siamo noi ad aver inventato la raccolta differenziata. L’idea di riutilizzare gli scarti appartiene da sempre all’essere umano, e gli antichi romani erano dei veri maestri. Invece che eliminare scarti e oggetti guasti, li accumulavano alle porte della città e li separavano con grande accuratezza per poi ri-destinarli tutti (o quasi) a un nuovo uso utile. A mostrarlo sono i risultati di uno studio, ancora non pubblicato, condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Cincinnati. I ricercatori hanno trovato prove di questa abile gestione dei rifiuti in alcuni siti archeologici dell’antica Pompei, precedenti all’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

Le pile di rifiuti negli scavi di Pompei

L’indagine è basata sullo studio di diversi campioni di strati di terreno nelle aree urbane dentro e fuori Pompei. I ricercatori hanno scoperto la presenza di mucchi di rifiuti in aree di raccolta situate soprattutto subito fuori dalle mura della città, e in alcuni casi anche all’interno, in appezzamenti di terreno abbandonati. “Queste pile di rifiuti sono spesso molto alte”, – ha sottolineato Allison Emmerson, docente di studi classici all’Università Tulane, che ha svolto lo studio insieme al gruppo dell’Università di Cincinnati, – “e sono probabilmente quello che resta dell’immondizia che veniva prodotta quotidianamente dagli antichi abitanti di Pompei”.

 

All’interno ci sono materiali di vario genere, fra cui un’abbondante quantità di minuscoli pezzetti di ceramica e di vetro, appartenuti ad oggetti come anfore e piastrelle, insieme a resti ossei di animali macellati e consumati, ceneri e carbone. “Mentre sono assenti frammenti più grandi di oggetti ancora in parte o del tutto intatti” – specifica Emmerson – “che non venivano accumulati in queste aree ma destinati probabilmente a un riuso immediato”.

Un riciclo intelligente nell’edilizia

I rifiuti, inoltre, non venivano ammassati per essere buttati, come avviene nei nostri cassonetti e nelle discariche. “Al contrario” – prosegue Emmerson – “i materiali venivano raccolti e accumulati e, quando l’ammasso era sufficientemente corposo, venivano riciclati”. Come? Servivano per riempire le mura di nuovi edifici, di cui costituivano la struttura. Una prova di questo, chiarisce la ricercatrice, si trova nel fatto che una volta impilati i materiali e creati i nuovi muri, questi ultimi venivano ricoperti di intonaco. Che serviva a dare un’aspetto più gradevole alla nuova costruzione.

L’origine delle pile di rifiuti

Finora gli scienziati ritenevano che queste pile di rifiuti non fossero l’immondizia prodotta quotidianamente dagli antichi romani. L’ipotesi, invece, era che dopo il terremoto che colpì Pompei nel 62-63 d.C., poco prima della famosa eruzione vulcanica del 79 d.C., gli abitanti avessero deciso di accumulare fuori dalle mura della città le macerie prodotte dall’evento catastrofico. “L’accumulo di macerie potrebbe aver contribuito a creare questi ammassi di scarti” – chiarisce Emmerson – “anche se la nostra idea è che queste pile fossero costituite per lo più da rifiuti prodotti dall’essere umano e destinati al riutilizzo”.

Immondizia e non macerie

Questa ipotesi deriva dal fatto che anche le zone periferiche in cui sono stati trovati molti di questi cumuli erano abitate e sembrerebbe poco probabile che le persone abbiano deciso di stipare e conservare lì le macerie senza riutilizzarle. Mentre è più probabile che si tratti di materiali destinati a creare nuove costruzioni. “Inoltre” – aggiunge l’esperta – “dalla nostra analisi risulta che gli scarti siano stati impilati in diverse riprese temporali e questo farebbe propendere per l’idea che i mucchi di scarto siano frutto di un accumulo continuativo di immondizia e non solo di un’operazione di eliminazione delle macerie”.

La differenza ieri e oggi

Insomma, il modo di accumulare e gestire i rifiuti e i punti di raccolta non sono paragonabili alle nostre discariche. “Quello che è diverso è il punto di vista. Noi ci concentriamo sull’eliminare, sul buttare gli oggetti per allontanarli quanto più possibile da dove viviamo” – dice l’esperta – “e solo dopo ci preoccupiamo che qualcuno ricicli alcuni materiali. Mentre i pompeiani conservavano questi rifiuti in prossimità dell’abitato o anche all’interno per poi riutilizzarli non appena possibile”.” La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Psoriasi, seguire la dieta mediterranea serve?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Se ad oggi non è stato scientificamente dimostrato un rapporto di causa-effetto tra psoriasi e cibo, una scorretta alimentazione è in grado di indurre peggioramenti significativi del quadro clinico, quindi è importate che chi è affetto da psoriasi segua una corretto regime dietetico per prevenire peggioramenti della malattia, per non interferire con alcuni farmaci utilizzati per la terapia e per non indurre patologie spesso associate (come diabete o disturbi cardiovascolari). Spesso vengono applicate diete prive di validità scientifiche che contribuiscono a peggiorare il quadro clinico. Giova infatti ricordare che la psoriasi si configura come una patologia infiammatoria cronica, sensibile a drastiche e insensate scelte alimentari.

Per quanto riguarda la dieta mediterranea è invece innegabile come contribuisca sensibilmente a migliorare  tutte le malattie infiammatorie cutanee ( e non solo, si pensi ai tumori o alle patologie cardiovascolari), tra cui la psoriasi, attraverso apporti bilanciati di pesce, verdure, carboidrati e frutta. Questa malattia è dovuto a uno stato infiammatorio cronico che sappiamo essere collegato anche a un aumento della glicemia con predisposizione al diabete e a elevati livelli di colesterolo e trigliceridi con conseguenti disordini metabolici. Di recente però è emerso il ruolo negativo svolto dal glutine che, attivando il micro io ma intestinale, sarebbe origine di incrementi e peggioramenti di malattie infiammatorie anche della pelle. Alla luce di questa evidenza per o pazienti affetti da psoriasi, si consiglia di attenersi alla dieta mediterranea, assumendo però pane e pasta priva di glutine, meglio se integrale.

Con questa modifica si potrà sfruttare il bilanciamento della dieta mediterranea, senza subire gli effetti potenzialmente dannosi svolti dal glutine. Mangiare bene, sano, evitando alcol e fumo dovrebbe essere il decalogo di tutti, in particolare dei malati di psoriasi nei quali il rischio di malattie cardiovascolari e metaboliche è, giova ricordarlo, più alto rispetto alla popolazione normale.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

aprile 2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Magris: la morte al tempo di Covid-19 Forme nuove di una nemica eterna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non finisce mai la narrazione lugubre dei modi che assume la fine della nostra esistenza. Forse però la sua incontinenza ci aiuta a non vederla sempre intorno a noi

“Prolixitas mortis, dice la teologia. La morte è prolissa, non riesce a concludere mai definitivamente il suo discorso; inventa sempre nuove forme come il linguaggio inventa nuove figure retoriche. Non finisce mai la sua narrazione, ha sempre qualche nuova pezzetta da aggiungere.

Forse la sua incontinenza è anche uno psicofarmaco o un placebo, che aiuta a non vederla sempre intorno; un’endorfina che impedisce di percepire la sua prossimità sempre incombente, la sua potenzialità nelle forme più diverse. La prolissità la svaluta, come accade alla merce in eccesso. Lo dimostrano pure le settimane che stiamo vivendo, col coronavirus e i suoi bollettini di guerra; il grande numero, la ripetizione della morte spaventa ma produce pure una certa assuefazione, che non si sa se definire difensiva o traditrice.

C’è nella storia di molti, di quasi ognuno di noi una prima, fondamentale esperienza della morte, incontrata con l’intensità delle rivelazioni fatali. Molti, molti anni fa ci fu, nella vita fraternamente comune e condivisa del nostro gruppo di amici e di amiche, torinesi di Trieste e triestini di Torino come amavamo chiamarci, una prima morte vissuta non solo da chi era (e dunque è, perché i legami e i valori sono) compagno/a figlio/a di Euridice o Alcesti, ma da tutti/e noi come uno squarcio irreparabile nel tessuto della vita.

Eravamo tutti/e là, intorno a quello strappo radicale. I decenni seguiti hanno condotto per mano, con intermittenti strattoni, molti/e (sempre meno) di noi nel deserto di chi sopravvive, come disse tanti anni fa Ungaretti in un discorso a Trieste. Chi sopravvive non ama il deserto e alle dune e alle sabbie di Lawrence d’Arabia preferirebbe star seduto a un tavolino con uno di quelli/e che, quando verrà il Giorno del Giudizio, testimonieranno per lui/lei, magari dimenticando qualche discutibile dettaglio.

La prolissità della morte continua a traboccare nelle nostre stanze come da una tubatura in perdita e a ricordarci, ad ammonirci che nelle prossime settimane o mesi potremo perdere alcuni nostri cari. Ma si parla sempre della morte degli altri, non del loro dispiacere se ad andarmene sarò io.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Alla ricerca di false e antiche panacee Carne di vipera nei farmaci prodigiosi

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ansia di combattere malattie terribili come peste e sifilide ha portato i nostri antenati a inventare rimedi bizzarri, a base di mercurio, zolfo, grasso di maiale e sterco di cavallo

“La più potente e invincibile (…) arma che usar possino li medici contra ogni veleno totale (…) insanabile, horrendo, pestifero». Ecco che cosa avrebbe suggerito contro il coronavirus lo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi verso la fine del Cinquecento: la Theriaca. Scrisse infatti in un manoscritto, conservato a Bologna e da anni al centro degli studi di Barbara Di Gennaro Splendore, dell’Università di Yale, che grazie all’impiego della carne di vipera nel miracoloso medicamento «siccome la calamita tira il ferro… così la vipera in questa tanto desiderata Theriaca tira a se con gran vehemenza et prestezza ogni et qualunque veleno radicato in qual minera si voglia del corpo…».

Sono millenni che l’uomo cerca qualcosa di prodigioso in grado di combattere i mali che via via si abbattono sulle popolazioni. Da molto prima che ciarlatani, spacciatori di unguenti 4.0 e untori millennials infettassero oggi il pianeta con fake news su farmaci giapponesi dannosi ai feti, sulle proprietà immaginifiche della vitamina C, sui gargarismi con la candeggina, sulle pozioni fai-da-te… Stupidari che richiamano gli anni sciagurati di Manto Tshabalala-Msimang, la ministra della Salute del Sudafrica che, al fianco del presidente Thabo Mbeki, giurava che contro l’Aids, più che i farmaci antivirali, funzionavano «cibi come aglio, limone, patate africane e barbabietola».

L’immagine rappresenta la cura del mercurio contro la sifilide mediante fumigazioni

Ed ecco, andando indietro nel tempo, la «panacea universale» che, spiega la Treccani, fu la «denominazione assegnata dagli alchimisti al chermes, minerale ritenuto capace, oltre che di guarire ogni male, anche di prolungare indefinitamente la vita». E l’opobàlsamo, l’olio ricavato dalla resina di un arbusto, chiamato appunto Balsamo, che pare crescesse solo nell’antico Egitto. E di cui avrebbe scritto per primo Dioscoride Pedanio, un botanico e medico greco vissuto a Roma ai tempi di Nerone. Una storia oscura e velata anche dal mistero della scomparsa (peraltro contestata) della pianta le cui virtù sarebbero state «riconosciute» secoli e secoli dopo in un altro arbusto trovato sorprendentemente in America. Vero? Falso? Mah…

Fatto è, scrive nell’articoloIl grande business della «Teriaca veneziana» Nelli-Elena Vanzan Marchini, che «quando Pompeo conquistò il Ponto, pare abbia trovato in uno scrigno la ricetta scritta di proprio pugno da Mitridate che venne poi utilizzata dai medici romani. Un secolo dopo Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, la modificò sostituendo la carne di Scincus, rettile dell’Arabia e del Nord Africa di difficile reperimento, con quella di vipera e portò i componenti al numero di 64: nasceva così la teriaca come farmaco che avrebbe avuto la fama di panacea universale. Tra i suoi numerosi elementi vi erano: la rosa, il giaggiolo, la cannella, la mirra, lo zenzero, lo zafferano, il dittamo, il pepe nero, la valeriana, la terra di Lemno, il vino vecchio, il miele, l’oppio… E ovviamente la carne di vipera». Se possibile dei Colli Euganei. La più pregiata e difficile da trovare se è vero che nei momenti di punta a Venezia «il fabbisogno mensile di ciascuna spezieria si aggirava intorno alle 800 vipere che venivano decapitate, pulite dalle interiora, scuoiate e bollite…».

Ma servivano poi, quelle pastiglie? I «teriacanti» della Serenissima rispondevano con una filastrocca: «Batti, batti, pesta, pesta/ la Teriaca qui si fa./ più d’un morbo che molesta/ per tal farmaco sen va». E lo stesso Aldrovandi assicurava che «felice dir si può quella città che (ne possiede) di questi pericolosi tempi sospetti di quella orribile e spaventosa peste che migliaia di uomini solo in un momento di tempo ammazza».

Scriveva anzi, con parole attualissime, che «l’imperatore, il re di Francia, di Spagna e tanti e tanti altri principi spendono milioni di ducati in tante guerre che loro fanno, con la morte di tante migliaia di uomini et con tanta distruzione di castelli e città», ma meglio avrebbero fatto a impegnarsi nell’impresa «di riformare la farmaceutica»: «Son certissimo che conseguiranno uno scopo et fine utilissimo… et con poca spesa».

La peste. Quello era l’incubo, ricorda Chiara Beatrice Vicentini, docente di Storia della farmacia e del farmaco all’Università di Ferrara e autrice del saggioRicette contro la Peste per Duchi e Duchesse, dove cita una formula presa dal Tractato contra la peste del 1522 scritto dal medico Giovanni Manardi: «Togli sangue di anatra maschio & femmina/ di ocha/ di capreto/ tutti sechi seme di Ruta saluatica di finochio/ di comino/ di anetho/ di napi saluatico ana tre drachme Gentiana trifolio/ squinantho/ incenso/ rose/ drachme quatro pepe biancho pepe longo/ costo valeriana aneso…» O un’altra ricetta dalRecetario de Galieno Optimo e probato a tutte le infirmità che achadeno a Homini et a Donetradotto nel 1514 a Venezia da Zuane Saracino: «Mira, Zafrano, Bolarminio, Carobe, Coralli rossi, Mirabolani emblicorum e Aloe. E fane pillole con malvasia o vino simile e nel tempo molto caldo fale con aloe lavato e negli altri tempi con aloe non lavato»…

Ma come dimenticare i rimedi tentati, con angoscia crescente, contro la sifilide? A partire dal trattamento, da parte dell’istrionico Paracelso (quello che si inventò l’Homunculus coltivato in una ampolla sepolta nello sterco di cavallo), a base di mercurio? «Oltre che sotto forma di unguento (mescolato con grasso di maiale, e, in seguito, con zolfo, mirra, incenso)», spiega nel libro L’altra faccia di VenereEugenia Tognotti, «il mercurio veniva usato per “fumigazioni”, bruciando un composto del metallo, in genere il cinabro, in un ambiente chiuso, nel quale il malato veniva rinchiuso». Come gli speciali recipienti chiamati «botti di Modica»: «Prima di iniziare la cura il malato era tenuto a dieta, purgato, salassato, riempito di tisane e di clisteri di ogni specie. Veniva quindi chiuso in un locale surriscaldato. Seguivano ancora salassi e purghe. Il trattamento non era interrotto neppure in caso di fenomeni d’intossicazione». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un Dantedì “digitale”: ecco tutte le iniziative per la giornata di Dante

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima giornata nazionale dedicata a celebrare il poeta ai tempi del coronavirus: chiuse scuole, università e musei, tutti gli eventi si sono trasferiti sul web, in radio e in tv. Ecco cosa non perdere

E quindi uscimmo a riveder le stelle: così si chiude l’Inferno dantesco. Versi che in tempi di coronavirus risuonano in modo singolare, come un appello alla speranza e insieme alla nostra comune identità di italiani. E così la prima edizione del 25 marzo come Dantedì (il 25 marzo 1300 è designato come inizio del viaggio dantesco nell’Aldilà), ossia la giornata nazionale dedicata al poeta istituita dal ministero dei Beni Culturali, non è stata annullata. Si è invece trasferita online e sui media, in un momento in cui tutte le istituzioni culturali del paese, dalla scuola all’università, dalle accademie ai musei, sono chiuse. Gli appuntamenti sono moltissimi e tutte le iniziative sono identificate dagli hashtag ufficiali #Dantedì e #IoleggoDante. Eccone alcune

Nei musei

Sul canale YouTube del MiBACT, un video di 40 minuti – aperto da un appello di Carlo Ossola, presidente del Comitato Nazionale per le celebrazioni dei settecento anni dalla morte di Dante Alighieri, vede alternarsi italianisti e dantisti che raccontano la vita del sommo poeta e la Divina Commedia. Il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini, spiega come il senso di questa festa sia di unire dantisti e dantofili, come li definiva Giosuè Carducci, ossia studiosi e appassionati amatoriali, mentre lo storico della letteratura Luca Serianni evidenzia quanto sia forte la sua impronta sulla nostra identità, dal momento che ogni italiano ne conosce a memoria almeno un verso. Sempre sullo stesso canale sono pubblicate le letture dantesche e le iniziative di varie istituzioni museali.

Gli Uffizi di Firenze hanno invece pubblicato sul loro sito un’ esposizione virtuale dedicata a Dante, intintolata Non per foco ma per divin’arte. Immagini dantesche dalle Gallerie degli Uffizi: una scelta di 11 opere appartenenti alla collezione delle Gallerie, tra dipinti, disegni e sculture dal Quattrocento all’Ottocento che raccontano la figura, i personaggi e la fortuna dell’Alighieri nella storia dell’arte. Tra queste l’affresco di Andrea del Castagno raffigurante il Poeta e scene dalla Divina Commedia come La Selva oscura di Federico Zuccari, oltre a capolavori di Cimabue, Giotto, Botticelli e Pio Fedi. Sulla pagina Facebook del museo è disponibile il video del tour archeologico sotto il piano stradale della fabbrica vasariana. Anche il Museo e Real Bosco di Capodimonte partecipa alle celebrazioni citando versi della Divina Commedia abbinati alle opere della propria collezione, con gli con gli hashtag ufficiali #Dantedì e #IoleggoDante. Tra le immagini selezionate quelle dei dipinti riferiti ai sette vizi capitali (Lussuria, Superbia, Accidia, Gola, Invidia, Avarizia e Ira) del fiammingo Jacques de Backer, presenti in Collezione Farnese, o il busto di Dante in marmo di un ignoto del XIX secolo, esposto nella mostra Depositi di Capodimonte.” La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Flashmob delle Biblioteche di Roma: per il Dantedì “Amor, ch’a nullo amato amar perdona”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Il 25 marzo, in corrispondenza con la data che gli studiosi individuano come inizio del viaggio ultraterreno della Divina Commedia, si celebrerà la prima edizione del Dantedì, la giornata dedicata a Dante Alighieri recentemente istituita dal Governo.

L’appuntamento è per le 12 di mercoledì 25 marzo, orario in cui siamo tutti chiamati a leggere Dante e a riscoprire i versi della Commedia. Biblioteche di Roma aderisce al Dantedì Flashmob per celebrare il Sommo Poeta con la lettura della Divina Commedia. Alle ore 12 di domani, sulle pagine dei social e sul canale youtube Mediateca Roma, Biblioteche di Roma pubblicherà un contributo inviato da Giulio Ferroni, autore del libro L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia di Dante edito da La nave di Teseo, e un video realizzato dagli operatori e dagli utenti delle Biblioteche di Roma che leggono alcune terzine del Canto V dell’Inferno.

Inoltre, sul portale www.biblioteche di Roma, sarà pubblicata una selezione bibliografica che comprende risorse digitali, edizioni recenti e curiosità dantesche. E ancora, per i più piccoli un omaggio a Dante, per scoprire il celebre autore fra le pagine dei libri per bambini e per ragazzi. Tutti gli utenti di Biblioteche di Roma sono invitati a condividere con gli hasthag #ioleggocondante #Dantedì.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende. Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inf., V canto).” Il Messaggero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

marzo2020:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«Yellowstone», western moderno che ricorda i film classici

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Kevin Costner è il protagonista della serie su Sky Atlantic: un cow boy pronto tutto per difendere i confini della sua terra dalla modernità espansiva

“Le vallate incontaminate del Montana, il limitare del deserto, uno stallone da domare, la faccia segnata di Kevin Costner, un mondo antico che sta per crollare, la riserva indiana da allargare, l’espansione edilizia senza scrupoli…. La serie «Yellowstone» è un western moderno che a tratti ricorda alcuni film classici. I primi che mi vengono in mente: «Il gigante» di George Stevens, 1956, «Il marchio dell’odio» di Joseph H.Lewis, «Il grande paese» di William Wyler e chissà quanti altri. Perché la struttura è esemplare: Costner interpreta John Dutton, capofamiglia e proprietario del ranch, pronto a tutto pur di difendere i confini della sua terra contro il nemico esterno (non più gli indiani, in questo caso, ma la modernità espansiva).

Ma, come canone esige, c’è anche la lotta interna, contro i quattro figli: Kayce, un veterano che ha lasciato il clan dei Dutton per vivere nella riserva con la moglie e il figlio (anche i nativi rivendicano i loro diritti); Jamie, un avvocato che vuole iniziare una carriera in politica; Beth, l’unica donna, un lavoro spietato nel settore finanziario e qualche problema con l’alcol; Lee, che ha dedicato la sua vita al ranch. Lo schema è molto semplice: da una parte alcuni imprenditori avidi, senza scrupoli e i giochi di potere della politica, dall’altra una comunità indigena intenzionata a vendicare le perdite subite in passato e in mezzo una famiglia-clan intenzionata a difendere sé stessa, i propri possedimenti e la propria identità. La scrittura non può che essere old style (la dimensione mitica del western classico se la poteva permettere, qui no), troppo prevedibile, con una caratterizzazione dei personaggi scolpita nel legno del Montana. La morale della serie in una frase del patriarca al figlio ribelle: «Non esistono gli uomini buoni, Kayce: tutti gli uomini sono cattivi. Ma alcuni di noi si battono duramente per essere buoni». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Parma capitale della Cultura, Governo al lavoro per la proroga al 2021

 

 

 

 

 

 

 

“Il titolo di capitale italiana della cultura 2020 è conferito alla città di Parma anche per l’anno 2021.

La proroga è una delle proposte ministeriali allo studio per il decreto legge per l’emergenza sanitaria da coronavirus.

Il coronavirus ferma Parma capitale italiana della Cultura

Il coronavirus ferma Parma capitale italiana

La procedura di selezione relativa al conferimento del titolo di Capitale italiana della cultura per l’anno 2021, in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, si intendono riferite all’anno 2022″ precisa ancora la bozza.

Dopo le parole dell’assessore comunale alla Cultura Michele Guerra è oggi il Comitato per Parma 2020 a tornare sulla vicenda sottolineando, in una nota, che “stiamo tentando l’impossibile per riprogrammare il maggior numero di attività nella seconda metà dell’anno o, in molti casi l’anno prossimo”.

Al momento, viene spiegato infatti, “si attende, in tempi auspicabilmente brevi, di conoscere la decisione del Governo circa la possibilità di concedere a Parma di proseguire il suo percorso di Capitale Italiana della Cultura nel 2021, in modo che si possa tentare di recuperare ciò che si perderà quest’anno e si possa giungereancora più pronti”.

Per questo, viene osservato, “in queste settimane il team di Parma 2020 non smetterà un solo giorno di lavorare, seppur a distanza, per valutare tutte le azioni che andranno programmate in relazione al calendario, alle risorse e, in particolare, alla comunicazione di Parma 2020, che verrà intensificata per tenere alta l’attenzione sulla città, sul territorio e su tutto ciò che riprenderemo a fare non appena l’emergenza sarà cessata”.” La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sappiamo davvero che cosa è la fame?

Distinguere necessità e golosità

 

 

 

 

 

 

 

Un altro buon motivo per fare attività fisica è capire quando davvero si ha bisogno di introdurre cibo. Tutta una questione di ormoni della sazietà e dell’appetito. Ma anche di testa

Che cosa è davvero la fame

Nera. È associata a questo colore. Da sempre. Cosa? La fame, una condizione che milioni di persone nella storia dell’umanità hanno conosciuto e conoscono (sono 821 milioni le persone al mondo colpite da malnutrizione, dati World Food Progamme). Non però nella gran parte del mondo occidentale, il mondo ricco, quello che mangia più di quello di cui ha bisogno e che addirittura si permette di buttarlo via il cibo. Altro che fame. Chiediamoci, allora, se sappiamo cos’è la fame. Per molti di noi (forse per tutti) la risposta è: «Certo che conosco la fame, anzi la incontro, e da vicino, più volte al giorno». È normale: il nostro corpo chiede energia per poter funzionare e noi obbediamo. Ma la sensazione di fame è la classica arma a doppio taglio: da una parte risponde a una esigenza primaria, dall’altra è lo specchio di cattive abitudini e letture sbagliate di messaggi che vengono dal nostro cervello.

Bisogno di consolazione

Verrebbe da dire che noi, figli di una società dell’abbondanza, sappiamo bene cos’è il languorino ma non conosciamo per niente la fame. «Spesso mangiamo senza che il nostro corpo ne abbia bisogno — spiega Stefano Erzegovesi, medico nutrizionista e psichiatra, primario del Centro per i disturbi alimentari dell’ospedale San Raffaele di Milano — siamo portati a usare il cibo come un “regolatore emotivo”. Facciamo un esempio: siamo tristi o arrabbiati? Se mangiamo una merendina o delle patatine fritte subito proviamo una sensazione di piacere che ci consola, ci calma. Diciamolo: le industrie alimentari progettano questi cibi in modo che abbiano un “alto effetto gratificante”: grazie a una sapiente miscela di zucchero, sale e grassi garantiscono un immediato piacere al palato ma hanno anche un effetto che il nostro cervello percepisce come drogante». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scala, Palazzo Reale (e la Fiera a Rho) Il Salone del Mobile investe in cultura

 

 

 

 

 

 

 

La rassegna dell’abitare si terrà dal 21 al 26 aprile (con l’incognita coronavirus). In programma un’installazione nella Sala delle Cariatidi e il concerto con Riccardo Chailly

“Nel segno della bellezza, della cultura, della sostenibilità, dell’inclusione, della solidarietà nei confronti dei cinesi «che se non potranno essere presenti a Milano, saranno coinvolti in altri modi, soprattutto con il digitale». Salone del Mobile, il cinquantanovesimo. Quasi ci siamo. L’appuntamento è per il 21 aprile (fino al 26) nei padiglioni di Rho-Fiera: quest’anno in mostra — attesissimi— ci sono bagno e cucina, si aspettano padiglioni faraonici. Ricerca e tecnologia. Eventi culturali in città: una «Scatola Magica» nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale e il concerto alla Scala diretto da Riccardo Chailly. Si parte. Con l’incognita coronavirus e — di conseguenza — trentamila visitatori cinesi in meno.

Presentazione mercoledì 12 febbraio nell’aula magna dell’Università Cattolica. Apertura del rettore Franco Anelli, i saluti del sindaco Beppe Sala che ha sottolineato il ruolo importante di atenei e design per la città. E dei giovani: «Sono il motore della nostra cultura. Seicento designer che parteciperanno al Salone Satellite sono under 35». Poi ci sono gli altri numeri: oltre 210 mila metri quadrati di superficie netta espositiva in Fiera, 2.200 aziende che si mettono in gioco in sei giorni di manifestazione.

Progetto, impresa, qualità, sistema, ingegno. La macchina del design si muove, nonostante le emergenze internazionali. Claudio Luti, presidente del Salone del Mobile (e di Kartell), resta fiducioso: «Saremo pronti tra due mesi con gli amici da tutto il mondo, chiaramente sappiamo qual è la situazione in Cina e sapremo gestirla. Noi lavoriamo al nostro programma, vogliamo che Milano sia pronta per ribadire che è la capitale della creatività e proporrà una settimana davvero interessante». Aggiunge Emanuele Orsini, presidente di FederlegnoArredo: «È logica la nostra preoccupazione per il 2020, non possiamo nascondere l’entità dell’emergenza. Ma siamo pronti ad affrontarla».

Idee chiare e parole chiave: ingegno, impresa, sistema, comunicazione. Cui se ne aggiunge, per l’edizione 2020, una: bellezza. «Perché inventare ogni anno un design nuovo, sperimentare ogni sorta di armonia nelle forme, plasmare il materiale “giusto” raggiungendo un alto grado di sostenibilità significa ricercare la bellezza. Ed è questo che fanno, con onestà, impegno e trasparenza, le aziende e i progettisti protagonisti del Salone del Mobile».

Etica del fare, estetica dell’abitare. «Si vedranno tante aziende impegnate nell’investire in prodotti e sistemi focalizzati rivolti al benessere delle persone e dell’ambiente», afferma Claudio Luti.

E nell’ambito della bellezza è compreso anche il consueto appuntamento culturale organizzato dal Salone del Mobile. Quest’anno si tratta della «Scatola Magica»: dal 21 aprile al 3 maggio, nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, andrà in scena una monumentale installazione audiovisiva site-specific dedicata ai dieci valori che compongono il Manifesto del Salone del Mobile. Saranno proiettati dieci film d’autore realizzati da dieci registi italiani: ciascuno ha interpretato secondo la propria cifra stilistica una parola del Manifesto, trasformandola in un corto d’autore. Claudio Giovannesi si è cimentato con la parola Cultura, Francesca Archibugi con «Emozione», Pappi Corsicato con «Impresa», Daniele Ciprì con «Milano», Wilma Labate con «Progetto», Stefano Mordini con «Qualità», Bruno Bozzetto con «Sistema», Luca Lucini (che ha partecipato alla presentazione) con «Comunicazione», Donato Carrisi con «Ingegno» e infine, Gianni Canova e un team di studenti di cinema dell’Università Iulm con «Giovani». L’ingresso, come sempre, sarà gratuito. Il percorso durerà una ventina di minuti: «Abbiamo immaginato di inventare un “dizionario visionario” della creatività italiana» spiega Davide Rampello, direttore artistico dell’installazione.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

febbraio2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intelligenza: bisogna allenare il cervello come fosse un muscolo

 

 

 

 

 

 

 

Ereditare buoni geni non è tutto, ambiente esperienze e persino una buona alimentazione fanno la differenza e il picco è dopo i 40 anni

“L’intelligenza non è un monolite misurabile con il test del QI, e ognuno può essere forte in un «dominio» specifico, magari arduo da valutare (non è facile quantificare l’intelligenza intrapersonale, quella morale o quella corporea); ma se definiamo l’intelligenza come la capacità di adattarci al meglio all’ambiente e di rispondervi di conseguenza è difficile sostenere che sia una qualità inutile.

È possibile allora diventare più intelligenti?

Gioacchino Tedeschi, presidente della Società Italiana di Neurologia, spiega: «L’intelligenza è stata considerata a lungo una capacità innata, dipendente dal patrimonio genetico ereditato dai genitori; oggi si ritiene che anche fattori ambientali concorrano ad innalzare l’efficienza intellettiva. Che infatti cambia nel tempo: da giovani abbiamo un’intelligenza più fluida, ovvero una capacità di analizzare problemi, identificare gli schemi e le relazioni sottostanti tra elementi per trovare una soluzione usando il ragionamento logico, indipendentemente dalle conoscenze acquisite con l’apprendimento. È la componente strutturale e funzionale “innata” dell’intelligenza; da adulti e anziani sviluppiamo un’intelligenza cristallizzata, cioè la capacità di utilizzare competenze e conoscenze che scaturisce dall’esperienza ed è legata alla cultura. Quindi, l’intelligenza può essere sviluppata ed è influenzata dall’ambiente che, se ricco di stimoli e nuove sfide, contribuisce a migliorarla». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Dantedì si terrà il 25 marzo Alighieri ha il suo giorno celebrativo

 

 

 

 

Il consiglio dei ministri su proposta del titolare del dicastero della Cultura Dario Franceschini ha istituito la data per la giornata dedicata al poeta Dante Alighieri

“Il Dantedì entra nel calendario: il 25 marzo sarà la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri. Il Consiglio dei ministri, nella seduta di venerdì 17 gennaio, ha approvato la direttiva che istituisce il giorno per il poeta, in vista dei 700 anni dalla sua scomparsa che cadranno nel 2021.

Il Dantedì è nato su proposta del ministero per i Beni e le attività culturali e per il turismo; il titolare del dicastero Dario Franceschini non nasconde la sua soddisfazione. «L’aspetto che più mi rende felice — spiega il ministro al “Corriere” — è che il Dantedì resterà immutabile nel calendario anche dopo la conclusione delle celebrazioni». «Abbiamo bisogno di rafforzare la cultura nel nostro Paese e Dante è un punto d’appoggio fondamentale» ha osservato il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, che già da sottosegretaria aveva espresso il suo sostegno al progetto. Anche il suo ministero verrà chiamato in causa visto che a caratterizzare il Dantedì sarà il coinvolgimento delle scuole. «Stiamo lavorando a iniziative per gli studenti già a partire dal 2020», dice al “Corriere” Azzolina. L’attenzione al mondo della scuola trova conferma anche nella data scelta: «Fino all’ultimo — svela Franceschini — c’era una alternativa tra due giorni». Il 14 settembre, data di morte del poeta, e il 25 marzo, che gli studiosi riconoscono come possibile inizio del viaggio nell’aldilà della Divina Commedia. Ha prevalso la seconda anche per la sua collocazione più felice all’interno dell’anno scolastico.

Le aspettative in vista della ricorrenza del 2021 sono molte: dopo l’impegno di Poste Italiane (con il coinvolgimento di 70 Comuni legati alla vita o all’opera del poeta) «altre grandi aziende si facciano avanti» esorta il ministro Franceschini. «Dalla Rai mi aspetto che su Dante proponga e produca grandi cose». Il ministro annuncia poi per il 2021 una grande mostra dantesca alle Scuderie del Quirinale, a Roma. Sono oltre 400 le iniziative giunte al Comitato nazionale per le celebrazioni dei 700 anni della morte di Dante, presieduto dal filologo Carlo Ossola. Lo studioso ha accolto con favore la «nascita» del Dantedì: «Permetterà di ravvivare ogni anno la memoria del poeta, il cui ricordo è vitale per la sopravvivenza della nostra mente».

L’istituzione della giornata ha incassato il plauso anche dell’Accademia della Crusca: «Cercheremo di riempire questo giorno di contenuti anche popolari per raggiungere un pubblico vasto, per far sentire Dante come proprio a tutto il popolo italiano» ha detto Claudio Marazzini, linguista, presidente del sodalizio. Marazzini, con il linguista Luca Serianni e il dantista Alberto Casadei, era stato tra i partecipanti all’evento Dante è la nostra identità. Per l’istituzione del Dantedì, che si era svolto il 4 luglio 2019 a Milano nella Sala Buzzati del «Corriere», organizzato da Fondazione Corriere. L’incontro aveva fatto seguito alla proposta, partita il 24 aprile 2019 da un corsivo del giornalista e scrittore Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», che Dante Alighieri avesse una sua giornata sul calendario. Il termine Dantedì era stato coniato in seguito insieme con il linguista Francesco Sabatini; quest’ultimo è intervenuto venerdì 17 parlando di «una vittoria per l’Italia della cultura».

Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia e presidente di Fondazione Italia che a Dante ha dedicato un convegno, ha definito il Dantedì come «una iniziativa una volta tanto condivisibile» presa dal governo; di «grande occasione» ha parlato Andrea Martella, deputato pd, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Editoria; infine, Michele Nitti, deputato del Movimento 5 Stelle in Commissione Cultura, che nel luglio 2019 era stato il primo firmatario della mozione per istituire il Dantedì, ha ribadito che «protagoniste della giornata saranno principalmente le scuole».

L’idea del Dantedì era nata dal «Corriere della Sera»; in un corsivo del 24 aprile 2019, il giornalista e scrittore Paolo Di Stefano aveva proposto che Dante Alighieri avesse una sua Giornata sul calendario. Il termine Dantedì era stato coniato con il linguista Francesco Sabatini. Il tema era stato affrontato da studiosi ed esperti nell’incontro Dante è la nostra identità. Per l’istituzione del Dantedì, che si è svolto il 4 luglio scorso a Milano nella Sala Buzzati del «Corriere», organizzato dalla Fondazione Corriere.

La data

La proposta per l’istituzione del Dantedì era partita nella primavera del 2019 dal «Corriere» che aveva sostenuto tra le date più adatte proprio quella del 25 marzo Il progetto della giornata per Dante Alighieri (1265-1321) aveva raccolto l’adesione di intellettuali e studiosi; di enti e istituzioni, in Italia e all’estero. Tra i sostenitori l’ex ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, il critico e traduttore René de Ceccatty, lo studioso di italianistica Zygmunt Baranski, la Società Dante-sca, la Società Dante Alighieri, l’Associazione degli Italianisti, la Società italiana per lo studio del pensiero medievale, la Regione Emilia- Romagna, il Comune di Ravenna e il Comitato del Forum per l’Italiano in Svizzera.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il 92% degli italiani ha la casa, ma solo il 6% ha meno di 35 anni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La proprietà immobiliare italiana è diffusa e saldamente in mano ai privati. I numeri più recenti che confermano la peculiarità del mercato del mattone nazionale sono presenti nel rapporto Gli immobili in Italia 2019 redatto dall’Agenzia delle Entrate. Su 34.871.821 unità residenziali censite, ben 32.192.053 risultavano possedute da persone fisiche, con una quota pari al 92,3%.

I dati fiscali cui fanno riferimento le Entrate sono relativi alle dichiarazioni del 2016 ma sono da considerarsi assolutamente attendibili anche rispetto alla situazione attuale, anche perché negli ultimi anni la politica delle società immobiliari è stata quella di cedere gli immobili residenziali a chi ne frazionasse le proprietà.

Le abitazioni principali (le case in cui il proprietario ha la residenza fiscale) sono oltre 19,5 milioni, mentre il numero delle abitazioni locate, poco più di sei milioni, è quasi equivalente a quello delle unità immobiliari tenute a disposizione. Questi sono i dati ricavabili dalle dichiarazioni dei redditi, resta il dubbio che non proprio tutti i contratti di locazione vengano dichiarati.

Il rapporto stima che il valore delle residenze possedute da persone fisiche ammonti a 5.211 miliardi di euro, cui vanno aggiunti altri 315 miliardi di euro per le pertinenze (principalmente si tratta di box auto). E’ un dato che però probabilmente andrebbe visto al ribasso di un buon 10%: a tanto ammonta infatti in media il calo dei valori registrato nell’ultimo triennio, anche se l’andamento dei prezzi non è stato omogeneo nel Paese. Il valore totale di immobili e pertinenze posseduto da persone fisiche e società è di 6000 miliardi di euro.

La regione con il maggior valore complessivo delle residenze è la Lombardia, con 822 miliardi di euro. La maggior parte dei 25,5 milioni di proprietari immobiliari ha come voce di reddito prevalente gli introiti da lavoro dipendente (10,7 milioni), ma i pensionati (10,3 milioni) seguono a ruota. Il reddito medio dichiarato è di 24.367 euro all’anno. Solo una minoranza (1,5 milioni) ricava le maggiori entrate dall’incasso dei canoni di locazione.

Un dato che dice molto sulla possibile evoluzione del mercato nei prossimi anni è quello relativo all’età dei proprietari: sono solo 1,5 milioni gli under 35, contro quasi 14 milioni di contribuenti tra 35 e 65 anni e 9,5 milioni ultra 65enni; siccome tutte le analisi più recenti di altra fonte concordano nel dire che la domanda di casa in acquisto da parte dei giovani resta molto debole (per mancanza di redditi stabili, soprattutto) è difficile ipotizzare che le compravendite di case possa crescere molto nei prossimi anni.” Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla colazione alla cena: cosa mangiare quando si scia

 

 

 

 

 

 

 

 

“DOPO pranzo, nel primo pomeriggio. E’ in questa fascia oraria che – secondo le statistiche – si verifica la maggior parte degli incidenti sulla neve complici la stanchezza e i pasti troppo pesanti che rallentano i riflessi. Perciò, se siete tra i tre milioni di italiani che amano gli sport invernali, conviene scegliere bene cosa mangiare per combattere il freddo e potenziare la performance sportiva. La dieta dello sciatore deve tenere conto non solo dello sforzo fisico, ma anche del fatto che ci si muove in altitudine e che il metabolismo e i fabbisogni energetici aumentano con le basse temperature. Il freddo e l’attività fisica mettono certamente fame e il rischio è quello di rimpinzarsi senza freni pensando che tanto poi si smaltisce. Ecco le regole da seguire a tavola prima di inforcare gli sci.   

 

Dolci e alcolici off limits

 

La prima regola è quella di lasciar perdere i dolci che fanno aumentare velocemente la glicemia. “Questo significa tornare sugli sci pieni di energia per poi piombare in uno stato di scarsa reattività neuromuscolare”, spiega Loreto Nemi, docente di Educazione Alimentare all’Università Cattolica di Roma. Da evitare anche gli alcolici perché sono vasocostrittori quindi fanno sentire di più il freddo e inoltre limitano le facoltà cognitive e quelle di coordinazione.

 

La prima colazione

 

E’ sempre il pasto più importante specie se si trascorrerà la giornata sulla neve. Deve essere abbondante (circa il 20% dell’energia giornaliera), ma anche facilmente digeribile così da poter essere velocemente assorbita e utilizzata dall’organismo. “Si può iniziare bene la giornata con un caffè, una tazza di latte (o yogurt), un buon pane integrale (50-100 g a seconda dei fabbisogni) con un velo di burro di montagna e marmellata aggiungendo una spremuta di arance o un paio di frutti”, suggerisce l’esperto. “Oppure si può optare anche per una colazione con una quota proteica, alternativa ai latticini, inserendo per esempio dello speck, aminoacidi utili per nutrire i muscoli, che saranno impegnati nell’esercizio fisico”.

Un pranzo leggero per tornare in pista

A pranzo l’ideale è una pietanza che unisca i carboidrati e le proteine ma senza condimenti pesanti: “Può andar bene un piatto di pasta al pomodoro semplice abbinato ad uova o grana o parmigiano, orzo con la salsiccia oppure il riso con verdure facilmente digeribili (radicchio, zucca, insalate) o in  alternativa, si può optare per una zuppa di verdure o legumi buona anche per scaldarsi abbinata a formaggi o affettati (preferendo quelli del posto)”, suggerisce il dietista. Se, invece, si vuole fare una pausa pranzo veloce, si può mangiare anche un panino magari riscaldato alla piastra e farcito con cibi proteici come lo speck, il prosciutto o la bresaola.

A cena più libertà

Per chi scia è il pasto più abbondante della giornata, più completo e ricco di tutti i macronutrienti, e quello in cui ci si può concedere un po’ di vino o altra bevanda alcolica anche perché in genere in montagna si cena presto e quindi c’è tutto il tempo per digerire. “Si può mangiare un primo piatto caldo come riso, pasta, polenta e minestrone, un secondo a scelta tra carne (manzo o maiale), uova o formaggi grigliati, un’insalata o un piatto caldo di verdure, frutta fresca o un dolce”, spiega Nemi. 

 

Cioccolato o frutta come spezza-fame

A metà mattina e pomeriggio è bene rifocillarsi con uno spuntino. “Un caffè e qualche quadretto di cioccolato – spiega Nemi – vanno bene perché sia la teobromina contenuta nel cioccolato che la caffeina hanno proprietà stimolanti e possono migliorare la prestazione sportiva e il rendimento muscolare. Ma si può scegliere anche qualche biscotto, una barretta energetica o una manciata di semi oleosi (come mandorle, noci o nocciole) oppure frutta essiccata (come datteri, prugne o albicocche secche) che saziano e danno energia verso metà mattinata magari durante la risalita in seggiovia assicurano la copertura di fabbisogni energetici fino all’ora di pranzo così come nel pomeriggio si può prendere una cioccolata calda o tè con biscotti o frutta per sostenersi fino a cena”, spiega l’esperto. Per chi preferisce la frutta, l’ideale è la banana che aiuta a prevenire i crampi, grazie al buon apporto di potassio (anche nei datteri ne troviamo un buon contenuto) minerale utile al buon funzionamento dei muscoli.” La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gennaio2020

 

 

 

 

 

 

 

Intesa Sanpaolo per la cultura

 

 

 

 

 

 

 

 

“Dopo Milano, Vicenza e Napoli, il sistema museale le Galleria d’Italia di Intesa Sanpaolo arriva a Torino con la scelta di destinare lo storico edificio di Palazzo Turinetti, in piazza San Carlo, a esposizioni permanenti e temporanee. Il progetto architettonico di Michele De Lucchi prevede lavori di ristrutturazione che dureranno due anni al termine dei quali sarà pronto il nuovo prestigioso museo dedicato prevalentemente alla fotografia (ospiterà tra l’altro l’Archivio Publifoto, acquistato da Intesa Sanpaolo, costituito da ben 7 milioni di fotografie, scattate tra l’inizio degli Anni ’30 e la fine del Novecento).

Questo ambizioso progetto si inserisce coerentemente nella nostra strategia che considera da sempre la cultura, la tutela del patrimonio artistico, la valorizzazione della musica, del teatro e della storia italiana come un fattore identitario da preservare e rafforzare. L’impegno e il successo dei progetti culturali realizzati trovano conferma nella grande partecipazione di pubblico alla mostra “Canova | Thorvaldsen – La nascita della scultura moderna” aperta alle Gallerie di Milano nell’ottobre 2019, che ha raccolto 100.000 visitatori nei primi due mesi.”

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Daniel Pennac: «Ecco il mio Fellini» L’omaggio su «la Lettura»

 

 

 

 

 

L’inserto anticipa il libro e lo spettacolo che l’autore francese dedica al regista nato cento anni fa. Nel nuovo numero anche scenari del dopo Brexit e altre «fini» della storia

“Siamo al principio della nuova decade del millennio, gli anni Venti, ma in questi tempi di inizi qualcosa sta per finire: alla mezzanotte del 31 gennaio il Regno Unito uscirà dall’Unione europea. Che cosa succederà dopo la Brexit? Quel che è certo è che la storia è costellata di cesure, divisioni, tramonti, secessioni e altri rovesciamenti più o meno traumatici che hanno trasformato imperi o continenti.

Il nuovo numero de «la Lettura», il #424 in edicola fino a sabato 18, si apre offrendo una serie di approfondimenti sul tema, in due direzioni precise, innanzitutto per capire da dove viene l’idea della Brexit (e quanto la società e la politica inglese si siano già allontanate dal continente negli ultimi tempi); e poi per conoscere gli esempi storici di «cesure» epocali, grandi «fini» più o meno traumatiche che hanno cambiato il mondo in tutti i tempi.

Sull’«insularità» degli inglesi, sulla «lontananza» dall’Europa vagheggiata da classe dirigente e popolo fin dalla seconda metà del Novecento, ragiona su «la Lettura» lo specialista di geopolitica Manlio Graziano. Ma se il distacco dall’Unione è certo, incerte sono le conseguenze di altre «crepe» ben aperte nel Regno, quella della Scozia con i suoi venti indipendentisti, o l’irrequietezza dell’Irlanda del Nord: ne scrive da Londra il corrispondente Luigi Ippolito, che propone un’analisi dei diversi «ismi» nel Regno Unito. A proposito, sulla tentazione del laburismo inglese di rincorrere i nazionalismi dopo la sconfitta elettorale, scrive lo storico dell’Europa Andrea Mammone.

E le altre «fini»? Nei testi a cura di Antonio Carioti, «la Lettura» ne offre una cospicua carrellata: e gli esempi sono tanti, fin dai tempi in cui, tre secoli avanti Cristo, l’impero persiano fu schiantato dall’esercito innovativo di Alessandro Magno, per arrivare alle cesure più recenti, come la dissoluzione dell’Urss. Il filosofo Mauro Bonazzi scrive di un’altra cesura nel campo della filosofia: la fine dell’Accademia di Platone, che fu però l’inizio della sua diffusione in Oriente.

A proposito di «fine», di tutt’altro tipo: c’è una stella splendente nel cielo d’inverno, la supergigante rossa Betelgeuse nella costellazione di Orione, che sta dando segni di collasso. La sua luminosità è diminuita notevolmente in pochi mesi e questo, per gli astronomi, potrebbe essere l’annuncio di una prossima «morte» della stella, lontana dalla Terra 662 anni luce. Evento che, trattandosi di una «gigante», potrebbe preludere all’esplosione in una luminosissima supernova: il condizionale è d’obbligo, come spiega su «la Lettura» l’astrofisico Giuseppe Galletta, ma l’evento sarebbe il primo del suo genere dai tempi di Galileo.

Fa riflettere proprio sul concetto di «fine» anche una tradizione recente, commovente: c’è una cabina telefonica immersa nella natura, in Giappone, che attira visitatori da tutto il mondo perché ospita un telefono con cui «parlare» ai propri defunti. La scrittrice Laura Imai Messina, che intorno alla «cabina» ha scritto un romanzo (Quel che affidiamo al vento, Piemme) è andata a visitarla per «la Lettura» e ha incontrato il guardiano, che descrive i visitatori giapponesi, americani, canadesi, anche italiani, e il viaggio quasi sacro che compiono; mentre Annachiara Sacchi scrive del romanzo di Laura Imai Messina sulle atmosfere rarefatte di questa cabina spirituale.

Rivolgimenti, cambiamenti, o meglio rivoluzioni: molti artisti oggi sono anche attivisti e sostenitori di diverse importanti cause, umanitarie, ambientali, politiche. Di questi «artivisti» come Ai Weiwei o Banksy scrive sul nuovo numero Vincenzo Trione. Un’altra rivoluzione è quella, grandiosa, dell’arte di El Greco. Il grande pittore visse tra il 1541 e il 1614, ma i suoi dipinti hanno una modernità stupefacente, tanto che la sua influenza è evidente, a distanza di secoli, in artisti come Chagall e Bacon: una mostra lo celebra a Parigi fino al 10 febbraio, ne scrive Stefano Bucci che l’ha visitata per «la Lettura». Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Raffaello a Roma, avvio record per le prenotazioni: 10mila in due giorni di prevendita

 

 

 

 

 

 

 

La mostra aprirà il prossimo 5 marzo ed esporrà 100 capolavori del maestro provenienti dagli Uffizi e da numerosi altri musei. Le richieste, sottolinea in un tweet il Mibact, provengono da tutto il mondo

“Avvio record per “Raffaello” a Roma, alle Scuderie del Quirinale. La mostra, che apre il prossimo 5 marzo e che esporrà 100 capolavori del maestro provenienti dagli Uffizi e da numerosi altri musei, conta già 10mila prenotazioni arrivate nelle prime 48 ore di prevendita. Le richieste, sottolinea in un tweet il Mibact, provengono da tutto il mondo.

Intitolata semplicemente “Raffaello”, la mostra romana costituisce l’apice delle celebrazioni mondiali a 500 anni dalla sua scomparsa – avvenuta a Roma il 6 aprile 1520 ad appena 37 anni – e rappresenta l’evento di punta del programma approvato dal Comitato Nazionale appositamente istituito dal ministro Dario Franceschini e presieduto da Antonio Paolucci.  Realizzata in collaborazione con le Gallerie degli Uffizi, la mostra è curata da Marzia Faietti e Matteo Lafranconi con il contributo di Vincenzo Farinella e Francesco Paolo Di Teodoro. Resterà aperta fino al 2 giugno.”

La Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dantedì, un’occasione per la scuola Dante che parla ai ragazzi lo speciale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pareri unanimi nell’apprezzare la proposta avanzata dal «Corriere della Sera» per celebrare l’autore della «Commedia» con una specifica attenzione rivolta agli studenti. Concordi i docenti e i dirigenti: la data deve cadere in un giorno di lezione

“Dante piace ancora molto agli studenti, «la passione che lo collega ai ragazzi è modernissima, ed è sempre quella». Cinque tra docenti e dirigenti scolastici di licei e istituti tecnici, da tutta Italia, non hanno dubbi: oggi chi insegna Dante incontra un vivo interesse che sembra condiviso in tutto il Paese. Da Veneto, Toscana, Romagna, Lazio, Sicilia sono arrivati i contributi di alcuni docenti di Italiano e Latino che hanno raccontato al «Corriere» com’è accolto l’Alighieri tra i banchi e hanno esposto la loro opinione sul Dantedì (termine coniato con Francesco Sabatini): una Giornata celebrativa in onore del poeta, lanciata sul quotidiano nello scorso aprile da Paolo Di Stefano, in occasione della ricorrenza dei 700 anni dalla morte del padre della letteratura italiana (iniziativa che oggi sarà oggetto di una discussione parlamentare). E, infine, hanno sottolineato quanto sia importante collocare questa Giornata in una data che cada durante l’anno scolastico.

«Il Dantedì è un’iniziativa giusta, ma si spera non si risolva tutto nel 2021». Silvia Perini è insegnante al triennio del liceo scientifico Alfredo Oriani di Ravenna. La docente si augura che la Giornata possa cadere durante l’anno scolastico, in modo che «i ragazzi siano “costretti” a prendersi del tempo, ad avere un progetto»; quindi sposa l’ipotesi del Dantedì in primavera: «Mi piacciono le date proposte perché sono legate più all’opera che alla vita». Giornata da promuovere anche all’estero perché «Dante è di tutti, come Shakespeare».

Mentre Ravenna, dove il poeta morì ed è sepolto, è una città che si muove autonomamente su iniziative culturali dantesche, ci sono realtà dove queste sono più rare fuori del sistema scolastico o universitario. «Se si istituisse il Dantedì, si potrebbe pensare a progetti nuovi legati all’occasione, come portare gli studenti nei luoghi danteschi, per esempio Firenze o Ravenna». Lo propone Gabriella Chisari, dirigente scolastica del liceo scientifico Galileo Galilei di Catania. E se la data cadesse il 25 marzo, proposto perché ritenuto data d’avvio del viaggio di Dante «consentirebbe alle scuole di partecipare ad attività senza incombere sulla fine o sull’inizio dell’anno». Chisari pensa che l’iniziativa («significativa per la nostra nazione come per la scuola») sia anche un investimento per formare le menti del futuro. Ed esportarla all’estero — dove molti dei nostri ragazzi si spostano per fare esperienze di studio — «rappresenterebbe un forte richiamo alla nostra identità nazionale». Annalisa Nacinovich, docente allo scientifico Filippo Buonarroti di Pisa, sottolinea un altro aspetto: il Dantedì potrebbe rendere le scuole partecipi in termini di collettività e «rappresentare un’importante scansione dell’anno; ci sono aree del Paese in cui le occasioni di ricordarlo sono molte, e altre in cui ciò non avviene: in questo modo la celebrazione sarebbe unitaria. Con Dante gli italiani possono dimostrare di avere qualcosa da dire a tutti: è stato considerato il padre della patria, ma è un uomo senza patria che porta con sé il concetto di identità italiana». Anche da Verona il dirigente scolastico Roberto Fattore del Liceo classico e linguistico Scipione Maffei appoggia il Dantedì: «Un modo di riproporre Dante in una fisionomia diversa, più libera, non solo legata alla programmazione scolastica». L’auspicio è che possa diventare una ricorrenza (il docente afferma la sua preferenza per le giornate primaverili) in cui nella figura del poeta «la cultura di una nazione possa riconoscersi». E poi: «Sono così totali i temi che Dante affronta e che rimandano all’umano, che da sempre lo portano al di là dei nostri confini». Una giornata dedicata a Dante è un investimento, nel tempo, di risorse, energie, stimoli. Perché l’onestà intellettuale sia effettivamente la meta del viaggio umano». A intervenire è Laura Pazienti, dirigente scolastica dell’istituto tecnico Galileo Sani di Latina. «Dante ha la stessa rilevanza e suscita lo stesso entusiasmo in tutti gli ambienti scolastici, anche negli istituti tecnici o professionali. Il Dantedì è un omaggio all’italianità ed è un riconoscimento dell’umanità in un senso universale. Anche per questo è di tutti».

Corriere della Sera

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dante:

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.”